Recensioni

TUTTO CHIEDE SALVEZZA DI DANIELE MENCARELLI

 

La malattia di Daniele si chiama salvezza. Quella che desidera per i suoi genitori, per tutti i genitori, per i suoi fratelli, per tutti i fratelli. E per se stesso, la implora. Daniele non tollera la sofferenza, è qualcosa che per lui non ha senso, non vuole nemmeno sentirne parlare. Lo angoscia. Usa droghe Daniele, per non sentire tutto quel dolore. E si scatena la rabbia.

Daniele viene sottoposto a un Trattamento Sanitario Obbligatorio e il romanzo non è che la narrazione della settimana trascorsa in un reparto psichiatrico della provincia di Roma. Ha 20 anni, è l’estate del 1984 e negli Stati Uniti si giocano i mondiali di calcio.

Con lui, in stanza, altri 5 uomini con i quali nascerà un senso di fratellanza, di condivisione e di vicinanza non sufficienti però a salvarli dal loro dolore e che porterà nel corso della storia a momenti drammatici.

Daniele Mencarelli oltre ad essere l’autore del romanzo ne è anche il protagonista, il Mencare’, parole autobiografiche che emozionano, che fanno arrivare tutta la violenza della sofferenza. Con un uso del romanesco che rende il racconto più credibile e vero.

Non ne escono bene i curanti: medici che prescrivono farmaci ma che faticano a mettere a disposizione la loro umanità, infermieri poco empatici e spaventati e un sistema, quello ospedaliero, che si presenta stanco. Dove chi c’è, si tiene ben lontano dal contatto con l’altro.

C’è Giorgio, uno dei protagonisti, che mi è rimasto dentro. Perché come lui, nella quotidianità del lavoro nelle comunità terapeutiche ne ho incontrati tanti. Rimasto fermo, quando a 10 anni non gli hanno fatto vedere la madre amata, morta improvvisamente dopo essere uscita di casa. Un dolore troppo grande, un vuoto senza senso, senza possibilità di essere rappresentato. Un lutto mai elaborato perché in quel non avere visto non è stato possibile nemmeno iniziarlo. Una sofferenza che è divenuta rabbia e violenza per non essere stata accolta.  Finisce in carcere Giorgio. E ancora, fino alla fine, in una drammatica coazione a ripetere, non si guarda. Non si viene visti.

È faticoso leggere di una psichiatria che non comprende, che non accoglie. Che è stanca. Ma è necessario farlo, per non dimenticare di essere umani. Prima di tutto.

Prima di concludere, la lettura di questo libro mi è stata consigliata da una compagna del corso di scrittura creativa, Emma, si parlava del mio libro, di quello che faccio nella vita, e lei ha pensato che potesse interessarmi. La ringrazio per lo stimolo. E ringrazio per tutti gli stimoli di lettura che sto ricevendo.

Mi piace che i libri stiano creando nuove relazioni.

Buona lettura a tutti!

BILL DI HELEN HUMPHREYS

 

Bill - Helen Humphreys - Libro - Playground - | IBS

Il libro mi è stato consigliato da Luca, amico e compagno di corso alla Bottega di Narrazione. Al centro della vicenda c’è il rapporto tra il protagonista, all’inizio un ragazzino Leonard Flint, e un adulto il “barbone”del villaggio Bill Zampe di coniglio. Bill vive ai margini, in un rifugio di fortuna scavato alla base di una collina, circondata da una vasta prateria. E’ silenzioso e tiene lontano tutti, tranne Leonard, a cui permette di accompagnarlo quando deve piazzare le trappole per i conigli selvatici a cui strappa le zampe, dopo averli catturati, per ricavarne e venderle come portafortuna. Agli occhi di Leonard, Bill è quanto di più delicato, protettivo e gentile lui possa trovare e desiderare accanto, un rifugio relazionale in una realtà in cui il ragazzino viene perseguitato dai bulli della scuola. Tutto cambia quando Bill si troverà ad essere protagonista di un gesto violento e crudele che porterà al suo arresto e all’allontanamento definitivo dal suo ambiente. I due si rincontreranno anni dopo, per caso, in un istituto psichiatrico, dove Leonard oramai uomo, medico, psichiatra inizierà a lavorare. E di nuovo, il loro rapporto porterà a un epilogo drammatico che segnerà, inevitabilmente e ancora la vita di entrambi.

Ambientato in Canada e ispirato da una storia vera. Ho apprezzato la capacità dell’autrice di prendere spunto da una vicenda vera e costruirne un romanzo. La scrittura è scorrevole, semplice, la trama però un po’ scontata e prevedibile. Non mi piace che tutto venga spiegato nelle ultime pagine, come a far “tornare” tutto, preferisco quando il lettore viene accompagnato alla comprensione per la durata del libro, pagina dopo pagina.  La parte della cura, mi è sembrata piena di stereotipi e di elementi che possono risultare fuorvianti. Come alla fine, quando il protagonista che finalmente si fa delle domande circa la natura del suo rapporto con Bill, si sottopone a un’analisi e scopre l’elemento traumatico. Ma, insomma, anche no! Non mi ha convinto. Interessanti i riferimenti ambientali e organizzativi del sistema di salute mentale canadese, in particolare, di cui non sapevo, gli esperimenti di psichiatri e pazienti sottoposti a trattamento con LSD. Forse trattati con superficialità nel libro, da approfondire per evitare facili fraintendimenti.

Un romanzo che si fa leggere, ma che rimane poco. Almeno, per me è stato così.

Voto 2/5.

Sono curiosa di sapere la vostra.

Buona lettura!

Silvia

 

 

LA FIGLIA UNICA DI GUADALUPE NETTEL

 

Sono mesi che non scrivo di libri. Questo non significa che le mie letture si siano interrotte, anzi!

L’ultimo libro di cui ho scritto è Sostiene Pereira e devo dire che non è stato facile trovarne uno, successivamente, su cui valesse la pena riflettere. Ma questo non è l’unico motivo. Sono stati mesi pieni di novità: un figlio nato lo stesso giorno in cui è uscito il mio primo romanzo. Tutte le mie energie sono finite nella cura del primo e nella promozione del secondo, che continua. Entrambi naturalmente!

Sono comunque riuscita a leggere molto e oggi finalmente torno a condividere con voi le mie letture. Saranno considerazioni forse meno dettagliate e non sempre saranno accompagnate dalla creazione dei segnalibri perchè se io scrivo qualcuno deve badare al piccolo! Ma prima o poi torneremo a regime!

LA FIGLIA UNICA di Guadalupe Nettel – Ne ho sentito parlare la prima volta durante un bookclub femminista e poi, per caso, me lo sono ritrovata cercando notizie sull’ultimo libro di Yehoshoua che ha lo stesso titolo.

Il tema è piuttosto delicato, soprattutto per chi, come me, ha appena avuto un figlio. L’ho scoperto dopo, a lettura iniziata, che il tema era la maternità. O meglio, come l’amore per un altro individuo,  può assumere ed esprimersi in diverse forme. Dove la maternità è più uno stato mentale, l’essere madri nei termini di occuparsi di.

Protagoniste sono due donne: Laura e Alina. La prima convinta di non volere un figlio, sola, in difficoltà nello stabilire rapporti sentimentali. Con un rapporto conflittuale con la propria madre. Ma capace di essere amica. E Alina, che rompe il patto di fedeltà al “mai madre” e rimane incinta di una bimba che ancor prima di nascere mostrerà le proprie fragilità.

Il libro è la storia di come i legami di amore e di amicizia di queste due donne si articolano e si sviluppano nella loro vita, portandole laddove non avrebbero mai creduto di poter arrivare, in termini di sentimenti e emozioni provate. E non sempre del tutto positive.

La scrittura è chiara, semplice, scorrevole. Facilita il confronto con la drammaticità di alcuni passaggi che riguardano la vita della piccola Ines, figlia di Alina, nata con gravi malformazioni.

Un libro che consiglio, perchè attraverso la lettura si può fare l’esperienza che per poter stare nelle cose bisogna viverle, e insieme crescere, provare emozioni, creare legami, farsi toccare da essi. Non rimanere indifferenti. Averne paura, viverne l’ambivalenza senza però rinunciare. Alla vita.

Affascinante il concetto di parassitismo di cova che l’autrice utilizza: ci sono uccelli che sentono l’impulso biologico di riprodursi per poi sottrarsi alle fatiche dell’allevamento, e quelli che pur accorgendosi (forse) che non sono i loro piccoli, li curano e gli assistono lo stesso. Un concetto che fa riflettere sul fare i conti con quello che si ha, non con quello che avremmo voluto, o piaciuto avere.

Soltanto ora mi trovo a riflettere sul titolo, la figlia unica. All’inizio, ho subito pensato alla questione unica, come sola figlia di una coppia. La lettura ti porta a comprendere che in realtà si tratta di un’unica, come unicità, diversa da tutti.

Voto 4/5

Buona lettura a tutti e aspetto vostri commenti!

LUCE DALLE CREPE di SILVIA RIVOLTA

 

Il 3 settembre 2021 è uscito il mio primo romanzo! Aspetto commenti!!!

Lo si può acquistare dal sito della casa editrice WLM Edizioni, su Amazon, su IBS o anche scrivendomi all’indirizzo silviarivolta79@virgilio.it.

PRESENTAZIONE:

Una crepa rompe la continuità di una superficie, dando la sensazione a chi guarda che non c’è più stabilità. Ma da essa può entrare un filo di luce….Cecilia lavora come educatrice in una casa abitata da persone con problemi psichici. L’arrivo di un personaggio particolare, Armando, la mette duramente a confronto con le proprie fragilità e paure. I suoi repentini cambi di umore, il suo comportamento minaccioso e svalutante, fanno sentire Cecilia insicura, la portano a mettere in dubbio le proprie scelte professionali. Quella casa diventa lo scenario principale in cui si svolgono le vicende ed è in giardino che avvengono le scoperte più importanti. La forza di quell’incontro travolge anche il fidanzato, Marcello, che ha sempre sostenuto e guidato Cecilia, in una relazione che ora sembra soffocarla impedendole di esprimersi. Un rapporto che viene incrinato, ulteriormente, dall’entrata in scena di un corteggiatore misterioso, capace di mettere Cecilia in contatto con parti di cui nemmeno lei è consapevole. L’improvvisa malattia del padre e la richiesta da parte dei fratelli di lasciare il suo lavoro per entrare nell’azienda di famiglia, la costringono a prendere una decisione difficile…..

 

 

 

 

Sostiene Pereira di Antonio Tabucchi

 

Non avevo mai letto Sostiene Pereira perché c’era qualcosa nel titolo e quel modo di rivolgersi al lettore che mi infastidiva. Come se mi aspettassi di leggere la cronaca di qualcosa. Quel sostiene mi allontanava. Qualche settimana fa ho iniziato un laboratorio di scrittura intitolato Storie (quasi) vere e nelle letture consigliate mi sono ritrovata questo libro.

Una storia (quasi) vera è qualcosa che non è del tutto vero, ma è una storia che per qualche motivo ha riguardato chi l’ha scritta. Sostiene Pereira ha riguardato anche a me, che l’ho letto.

Pereira è un ex giornalista di cronaca nera a cui viene affidata la pagina culturale di un giornale del pomeriggio, il “Lisboa”. Ama la letteratura del passato, soprattutto francese, ed è come se il passato diventasse l’unica sua dimensione di vita. Il passato insieme alla morte. Scrive necrologi anticipati e elogi funebri degli scrittori scomparsi a cui dedica una sezione della pagina che chiama ricorrenze. E vive nel ricordo della moglie morta, con cui parla rivolgendosi al suo ritratto, che porta sempre con sé, e nel rimpianto di non avere mai avuto un figlio. Sganciato completamente da quello che succede nel mondo, nel presente. È l’incontro con un giovane, Monteiro Rossi, a obbligarlo a prendere contatto con la realtà. E a condurlo in un lento e doloroso percorso di consapevolezza e crescita interiore che lo porterà, alla fine, ad una presa di posizione coraggiosa e molto lontana dal personaggio conosciuto all’inizio. Intenso anche l’incontro con il dottor Cardoso, che gli parla di Freud, che legge la sua condizione interiore come un conflitto tra un forte superego e un nuovo io egemone. Un personaggio che sembra secondario, ma che diventa centrale nel dar voce al conflitto interiore di Pereira, fornendogli la forza e legittimando il suo cambiamento.

La storia è ambientata a Lisbona, in Portogallo nel periodo del salazarismo portoghese, del fascismo italiano e della guerra civile spagnola. Ma al di là del periodo, al di là dell’ambiente in cui la storia è narrata, credo che Sostiene Pereira possa riguardare tutti. Pereira potremmo essere tutti noi. Per quella grandissima fatica di cambiare e anche per il coraggio di riuscire a farlo. Finalmente.

Sostiene Pereira è un libro che tutti dovremmo leggere. Tutti.

L’opera di Antonio Tabucchi è diventata una graphic novel grazie alle bellissime illustrazioni di Pierre-Henry Gomont, quella del protagonista viene ripresa nel segnalibro.

Buona lettura.

Il teatro dei sogni di Andrea De Carlo

 

Si tratta del primo libro che leggo di Andrea De Carlo. Lo dico perché guardando qua e là tra le varie opinioni relative a questo scritto ho trovato opinioni contrastanti: di chi fatica a riconoscere nell’opera le qualità dell’autore, ma c’è anche chi lo descrive come l’espressione ritrovata dello scrittore a cui nel tempo ci si è affezionati, rischiando di perderlo ad un certo punto.

Per me è tutto nuovo.

Ho iniziato a leggere Il teatro dei sogni e mi sono fermata, diverse volte. E in mezzo ci sono state altre letture. Forse perché era lontano dai miei soliti libri, dalle tematiche con cui mi trovo a mio agio.

Ma il titolo mi spingeva a riprenderlo. E poi la lettura è partita, fino alla fine.

Il teatro dei sogni. Il titolo si comprende soltanto all’ultima pagina. E forse è per questo che sono arrivata alla fine. Il sogno riguarda il desiderio di tornare ai sentimenti veri, autentici. Il tipo di sogno che può rovinare una persona, o renderla felice!

La scrittura di De Carlo è scorrevole, coinvolgente, semplice, ma nel senso che riesce a farti entrare immediatamente nella storia. E un po’ ti inganna. Perché questa piacevolezza nel leggere, in realtà, cela una situazione piuttosto desolante: quella dei social, delle apparenze, di una società e di una politica che non è interessata all’approfondimento. Ma soltanto alle notizie da gridare per poi dimenticare. È un ritratto piuttosto sconfortante di quello che ci circonda.

Mi è piaciuto molto il protagonista, Guiscardo Guidarini che con il suo Teatro dei Sogni riesce a farsi gioco di chi lo circonda e riesce a mettere in evidenza le contraddizioni e la povertà di una certa impostazione politica e sociale. Intensa la scena finale che vale tutto il libro. Che ha a che fare con l’amore.

Prima di concludere, questo è l’unica recensione per cui non ho pensato ad un segnalibro, perché ho trovato la copertina bellissima. Forse una delle più belle per un libro e con piacere ho appreso  che si  tratta di un’immagine realizzata proprio da Andrea De Carlo. Molto bella!

Solo un ragazzo di Elena Varvello

 

 

Era da molto tempo che non mi succedeva di non riuscire a smettere di leggere un libro, di doverlo finire, di andare a letto tardi e svegliarmi presto con il pensiero alla storia.

Non voglio dire della trama perché è un libro che va letto, che deve essere scoperto, che all’inizio fai fatica a comprendere perché assumi il punto di vista dei protagonisti. E vivi con loro quello che pensano, che temono, che vorrebbero. Al punto da non capire più che cosa è vero.

Il libro ti fa sentire dolore e sofferenza. Quella che il figlio, adolescente, il protagonista della storia, non è riuscito a sentire. Ha fatto succedere delle cose e basta.  Li provi tu questi vissuti al suo posto. Perché lui non ha comunicato, lui non ha detto, lui si è chiuso nel suo mondo. Attraverso lo scorrere delle pagine, riesci a vivere il dolore dei genitori, delle sorelle per non averlo compreso, per non essere riusciti a cogliere il suo disagio. Ed entri drammaticamente in quello che succede in una famiglia quando il dolore invade tutti gli spazi. E quello stesso figlio che prima quasi non si vedeva, poi diventa tutto, anche se non c’è: è ovunque, occupa ogni momento, ogni pensiero. Si litiga per lui, si smette di vivere, di mangiare, di toccarsi, di amare. Ci si sente in colpa. Si prova rabbia, si cerca di fuggire. E si muore di dolore.

La scrittura di Elena Varvello è intensa, ti fa sentire sulla pelle quello che provano i protagonisti della storia. Riesce a farti essere ciascuno di loro.

Prima di concludere, una cara lettrice del blog ha voluto condividere con me il bisogno, in questo momento così faticoso per tutto quello che sta succedendo, di libri un po’ più leggeri, meno dolorosi, in grado di fare sognare, sperare. Divertire. Quando mi ha parlato, questo libro l’avevo già letto. E ho voluto comunque presentarvelo. Non leggetelo se vi sentite appesantiti, lasciatelo per un altro momento.

Con il prossimo libro cercherò di andare in una direzione diversa, meno drammatica. Più leggera.

Alla prossima e grazie per i vostri riscontri.

La figlia ideale di Almudena Grandes

 

Come scrive l’autrice nelle sue note finali La figlia ideale è un romanzo inventato, ma costruito su fatti reali.

Questa la trama riportata sul risvolto della sovracopertina: nel 1954 German Velazquez Martin decide di tornare a casa. Aveva lasciato la Spagna un attimo prima della caduta della Repubblica grazie all’aiuto del padre, psichiatra perseguitato dai franchisti. Negli anni dell’esilio in Svizzera, German si è laureato e in seguito ha condotto una importante sperimentazione su un nuovo farmaco. Per questo gli hanno offerto un posto nel manicomio femminile di Ciempozuelos, vicino a Madrid, dove ritrova Aurora Rodriguez Carballeira, che era stata la più enigmatica fra le pazienti di suo padre. Colta e intelligentissima, Aurora era affetta da una grave forma di paranoia che l’aveva condotta a compiere il più atroce dei gesti. Condannata per l’omicidio della figlia Hildegart, Aurora vive da anni un uno stato di apatia, interrotto solo per fabbricare inquietanti pupazzi di stoffa….Scardinare le difese di una mente così intricata sarebbe impossibile senza un alleato, ma German può contare su Maria, infermiera ausiliaria già messa a dura prova dalle esperienze della vita, malgrado la giovane età. Per lei infatti Aurora ha una considerazione particolare, insieme trascorrono lunghi pomeriggi studiando le piante e consultando il mappamondo alla ricerca di posti lontani. Sfidando le convenzioni, lo psichiatra si avvicina a Maria, finche tra i due nasce un sentimento puro e fragile, che per sopravvivere dovrà sottrarsi alle ombre del passato di entrambi.

Questa la storia. Che, forse, si dilunga troppo (520 pagine) e che apre a molti, troppi personaggi, in un continuo passaggio tra il passato e il presente che rischia di farti perdere. Nonostante questo, la figura del protagonista, German, riesce a tenere le cose insieme e finisci per coinvolgerti: intense le righe sulla relazione con le pazienti del manicomio e la descrizione sugli approcci, sugli avvicinamenti a donna Aurora. Commuovente la storia della famiglia che lo accoglie in Svizzera, ebrei costretti a fuggire dalla Germania con un lutto che non supereranno mai. Tenera la storia d’amore con Maria, che intuisci fin dalle prime righe, ma che non termina come si vorrebbe. Personalmente, quello che più mi è rimasto di questo romanzo sono stati i riferimenti sull’impatto che ebbe l’asfissiante morale nazionalcattolica sulla vita privata delle internate dei manicomi e, per estensione, delle donne che vivevano nella Spagna del dopoguerrra. E, insieme, la possibilità di identificarmi con il protagonista, German,  promotore di un movimento di rinnovamento psichiatrico che metteva in discussione i metodi tradizionali per promuovere un radicale cambiamento nella cura della malattia mentale, una corrente, questa, severamente repressa dalla dittatura franchista. Il romanzo ritrae il franchismo da una prospettiva originale. Non meno drammatica. Per questo vale la pena leggerlo. E riflettere.

Buona lettura!

 

SENTI CHE VENTO DI ELEONORA SOTTILI

 

 

La storia di questo romanzo ruota attorno a tre donne, a un abito da sposa, a un cinghiale come animale da compagnia. Inizia con un fiume che straripa e prosegue con un segreto che non riguarda soltanto Agata, la protagonista del romanzo, ma anche la nonna. Come se, inconsapevolmente, qualcosa dell’una sia diventata dell’altra. In una storia che si ripete, molti anni dopo, e che riguarda l’incontro con parti di noi che ci sono sconosciute, finché un incontro….

Agata è fidanzata con Giacomo che la ama in un modo tranquillo e volenteroso, in quella specie di fermezza sentimentale che trapela da ogni suo gesto. Che ha dalla sua una certa stabilità, come quelle sostanze chimiche che difficilmente reagiscono, stabiliscono legami fissi e tendono a non passare inavvertitamente da uno stato all’altro. E quando è  promessa sposa, avviene l’incontro con Pietro. Che è passione, che è struggimento e felicità. Che fa sentire sensuale, spregiudicata e coraggiosa.

Pietro e Giacomo. Parti che fanno sentire interi, tutto. Che permettono di sentirsi dappertutto. E che si può avere ogni cosa.

Nel titolo “Senti che vento”, c’è l’essenza del romanzo che non è soltanto una lettura, ma è una vera e propria esperienza. Che coinvolge e fa lavorare tutti i sensi. Grazie alla scrittura di Eleonora Sottili, il lettore è come se percepisse i rumori, gli odori, l’umidità e prova gli stessi brividi, sul corpo, quando la passione tra Agata e Pietro s’infiamma. E le immagini che ci offre, così evocative, ti fanno sentire proprio quello che vuole esprimere. Ce n’è una che mi è rimasta dentro. Racconta della mancanza, con una semplicità e un’ immediatezza che ti lasciano senza fiato.

Ognuno di noi, da allora, cercava soprattutto di sopravvivere. Si trattava di resistere alla sofferenza, una massa scura, senza forma, dentro alla quale rischiavamo di cadere a ogni passo. Sopravvivevamo e facevamo la spesa perché in quei mesi le mancanze sembravano collegarsi tra loro, un bottone in una giacca, il pane, mio padre, il latte in frigo, il mangiare per i gatti, il nonno. Si cercava di rimediare subito e si usciva a comprare quello che non c’era.

Quello che mi rimane del libro, è che in ciascuno di noi c’è la possibilità di attraversare una piazza. Con i tacchi, per chi non li ha mai portati. In diagonale. E scoprire di noi qualcosa che prima non c’era.

Scrivere di qualcuno che si è conosciuto, anche solo per poco, non è semplice. In questo libro, ritrovo tutta la ricchezza e la generosità di chi l’ha scritto. Non si risparmia.

Le nostre anime di notte di Kent Haruf

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Cittadina di Holt, Colorado. Un giorno l’anziana vedova Addie Moore fa una visita inaspettata a Louis Waters, vicino di casa anch’egli vedovo. La sua proposta è diretta: “vuoi passare le notti da me?”

Inizia così una storia di intimità, amicizia e amore, fatta di racconti sussurrati alla luce delle stelle e piccoli gesti di premura. Ma la comunità di Holt non accetta la relazione di Addie e Louis, che considera inspiegabile. Anche il figlio della donna cerca di frapporsi tra i due, usando l’affetto della madre per il nipotino Jamie come leva per convincerla a interrompere la sua frequentazione con Louis. Alla fine i due protagonisti si trovano a dover scegliere tra la propria libertà e il rimpianto.

Al di là della trama, riportata anche sul libro, credo che l’essenza di questo breve romanzo stia nella sua immediatezza. Di stile, di parole, di dialoghi che non vengono nemmeno graficamente introdotti.

La proposta ritenuta scandalosa da paese, figli, vicini, viene espressa subito, nelle prime pagine. Questo permette al lettore di sentire che non c’è tempo da perdere. Che i due protagonisti non vogliono perdere tempo. O vogliono che quel loro tempo diventi significativo, “prima che sia troppo tardi”.

In questo, l’incontro con una generazione, quella dei figli, in difficoltà rispetto a rendere significativo il tempo. Addie Moore ha un figlio e un nipote. E una nuora che viene descritta come non disposta a nessun compromesso.  Un figlio che controlla tutto, che è protettivo, che soffoca. Che non ha mai elaborato il senso di colpa per quello che è accaduto, da bambini, alla sorella Connie, investita da un auto mentre giocavano a rincorrersi. Le pagine che descrivono l’incidente, lasciano senza fiato. La morte arriva senza darti il tempo di prepararti. Questo stesso figlio, che chiede aiuto, ma non è disponibile a darne, a comprendere.

È nella terza generazione, quella di Jamie, sei anni, il nipote di Addie che l’autore colloca una possibilità. Toccano nel profondo la parole e lo scambio di Louis con il bambino davanti alla scatola dei topini, appena nati:

Sono quasi pronti per lasciare il nido, disse Louis

Cosa faranno?

Faranno quello che vedranno fare alla madre. usciranno in cerca di cibo e costruiranno un nido per conto proprio ed entreranno in contatto con altri topi e avranno dei cuccioli.

Non li vedremo più?

Probabilmente no. Potremmo vederli in giardino oppure fuori, interno al garage, lungo qualche muro o accanto al capanno. Dovremo guardare bene.

Come mai la madre se n’è andata? Li ha lasciati soli.

Ha paura di noi. Ha più paura di noi che di lasciare i cuccioli da soli.

Ma noi non facciamo niente ai topolini vero?

No. Non voglio topi in casa, ma non mi dà fastidio se stanno qui fuori.

Kent Haruf era malato mentre scriveva, un anziano malato che lotta contro il tempo per riuscire a raccontare tutta la storia che ha dentro, anche a costo di farlo senza la consueta precisione. Il libro è uscito postumo, dopo la sua morte.

Leggerlo mi ha messo in contatto con il concetto di intimità. A cosa significa per me. Cosa vuol dire vivere insieme, resistere. Rendere significativo il tempo. Non perderlo. Smettere di avere pregiudizi, smettere di giudicare. Lasciar liberi.

Nel libro, l’autore cita un componimento poetico di T.S. Eliot dal titolo Il Canto d’amore di J. Alfred Prufrock. Louis ne parla con Addie, in uno dei loro momenti di vicinanza, racconta che da giovane andava matto per la poesia. Ma quel componimento non è per un giovane, non sono versi d’amore. Raccontano solitudini esistenziali. Credo che Haruf stesse parlando a se stesso e alla seconda generazione, di cui anche io faccio parte, con la speranza che questo suo scritto ci guidi. A rendere significativo il tempo.

Ve ne riporto l’ultima parte:

Divento vecchio….divento vecchio…

Porterò i pantaloni arrotolati in fondo.

Dividerò i miei capelli sulla nuca? Avrò il coraggio di mangiare una pesca?

Porterò pantaloni di flanella bianca, e camminerò sulla spiaggia.

Ho udito le sirene cantare l’una all’altra.

Non credo che canteranno per me.

Le ho viste al largo cavalcare l’onde

Pettinare la candida chioma dell’onde risospinte:

quando il vento rigonfia l’acqua bianca e nera.

Ci siamo troppo attardati nelle camere del mare

Con le figlie del mare incoronate d’alghe rosse e brune

Finchè le voci umane ci svegliano, e anneghiamo.

 

Spero che decidiate di leggerlo.

Il segnalibro racconta di chi non smette mai di guardare avanti.

Buona lettura!