TUTTO CHIEDE SALVEZZA DI DANIELE MENCARELLI

La malattia di Daniele si chiama salvezza. Quella che desidera per i suoi genitori, per tutti i genitori, per i suoi fratelli, per tutti i fratelli. E per se stesso, la implora. Daniele non tollera la sofferenza, è qualcosa che per lui non ha senso, non vuole nemmeno sentirne parlare. Lo angoscia. Usa droghe Daniele, per non sentire tutto quel dolore. E si scatena la rabbia.

Daniele viene sottoposto a un Trattamento Sanitario Obbligatorio e il romanzo non è che la narrazione della settimana trascorsa in un reparto psichiatrico della provincia di Roma. Ha 20 anni, è l’estate del 1984 e negli Stati Uniti si giocano i mondiali di calcio.

Con lui, in stanza, altri 5 uomini con i quali nascerà un senso di fratellanza, di condivisione e di vicinanza non sufficienti però a salvarli dal loro dolore e che porterà nel corso della storia a momenti drammatici.

Daniele Mencarelli oltre ad essere l’autore del romanzo ne è anche il protagonista, il Mencare’, parole autobiografiche che emozionano, che fanno arrivare tutta la violenza della sofferenza. Con un uso del romanesco che rende il racconto più credibile e vero.

Non ne escono bene i curanti: medici che prescrivono farmaci ma che faticano a mettere a disposizione la loro umanità, infermieri poco empatici e spaventati e un sistema, quello ospedaliero, che si presenta stanco. Dove chi c’è, si tiene ben lontano dal contatto con l’altro.

C’è Giorgio, uno dei protagonisti, che mi è rimasto dentro. Perché come lui, nella quotidianità del lavoro nelle comunità terapeutiche ne ho incontrati tanti. Rimasto fermo, quando a 10 anni non gli hanno fatto vedere la madre amata, morta improvvisamente dopo essere uscita di casa. Un dolore troppo grande, un vuoto senza senso, senza possibilità di essere rappresentato. Un lutto mai elaborato perché in quel non avere visto non è stato possibile nemmeno iniziarlo. Una sofferenza che è divenuta rabbia e violenza per non essere stata accolta.  Finisce in carcere Giorgio. E ancora, fino alla fine, in una drammatica coazione a ripetere, non si guarda. Non si viene visti.

È faticoso leggere di una psichiatria che non comprende, che non accoglie. Che è stanca. Ma è necessario farlo, per non dimenticare di essere umani. Prima di tutto.

Prima di concludere, la lettura di questo libro mi è stata consigliata da una compagna del corso di scrittura creativa, Emma, si parlava del mio libro, di quello che faccio nella vita, e lei ha pensato che potesse interessarmi. La ringrazio per lo stimolo. E ringrazio per tutti gli stimoli di lettura che sto ricevendo.

Mi piace che i libri stiano creando nuove relazioni.

Buona lettura a tutti!

 

LA FIGLIA UNICA DI GUADALUPE NETTEL

Sono mesi che non scrivo di libri. Questo non significa che le mie letture si siano interrotte, anzi!

L’ultimo libro di cui ho scritto è Sostiene Pereira e devo dire che non è stato facile trovarne uno, successivamente, su cui valesse la pena riflettere. Ma questo non è l’unico motivo. Sono stati mesi pieni di novità: un figlio nato lo stesso giorno in cui è uscito il mio primo romanzo. Tutte le mie energie sono finite nella cura del primo e nella promozione del secondo, che continua. Entrambi naturalmente!

Sono comunque riuscita a leggere molto e oggi finalmente torno a condividere con voi le mie letture. Saranno considerazioni forse meno dettagliate e non sempre saranno accompagnate dalla creazione dei segnalibri perchè se io scrivo qualcuno deve badare al piccolo! Ma prima o poi torneremo a regime!

LA FIGLIA UNICA di Guadalupe Nettel – Ne ho sentito parlare la prima volta durante un bookclub femminista e poi, per caso, me lo sono ritrovata cercando notizie sull’ultimo libro di Yehoshoua che ha lo stesso titolo.

Il tema è piuttosto delicato, soprattutto per chi, come me, ha appena avuto un figlio. L’ho scoperto dopo, a lettura iniziata, che il tema era la maternità. O meglio, come l’amore per un altro individuo,  può assumere ed esprimersi in diverse forme. Dove la maternità è più uno stato mentale, l’essere madri nei termini di occuparsi di.

Protagoniste sono due donne: Laura e Alina. La prima convinta di non volere un figlio, sola, in difficoltà nello stabilire rapporti sentimentali. Con un rapporto conflittuale con la propria madre. Ma capace di essere amica. E Alina, che rompe il patto di fedeltà al “mai madre” e rimane incinta di una bimba che ancor prima di nascere mostrerà le proprie fragilità.

Il libro è la storia di come i legami di amore e di amicizia di queste due donne si articolano e si sviluppano nella loro vita, portandole laddove non avrebbero mai creduto di poter arrivare, in termini di sentimenti e emozioni provate. E non sempre del tutto positive.

La scrittura è chiara, semplice, scorrevole. Facilita il confronto con la drammaticità di alcuni passaggi che riguardano la vita della piccola Ines, figlia di Alina, nata con gravi malformazioni.

Un libro che consiglio, perchè attraverso la lettura si può fare l’esperienza che per poter stare nelle cose bisogna viverle, e insieme crescere, provare emozioni, creare legami, farsi toccare da essi. Non rimanere indifferenti. Averne paura, viverne l’ambivalenza senza però rinunciare. Alla vita.

Affascinante il concetto di parassitismo di cova che l’autrice utilizza: ci sono uccelli che sentono l’impulso biologico di riprodursi per poi sottrarsi alle fatiche dell’allevamento, e quelli che pur accorgendosi (forse) che non sono i loro piccoli, li curano e gli assistono lo stesso. Un concetto che fa riflettere sul fare i conti con quello che si ha, non con quello che avremmo voluto, o piaciuto avere.

Soltanto ora mi trovo a riflettere sul titolo, la figlia unica. All’inizio, ho subito pensato alla questione unica, come sola figlia di una coppia. La lettura ti porta a comprendere che in realtà si tratta di un’unica, come unicità, diversa da tutti.

Voto 4/5

Buona lettura a tutti e aspetto vostri commenti!

 

LUCE DALLE CREPE di SILVIA RIVOLTA

Il 3 settembre 2021 è uscito il mio primo romanzo! Aspetto commenti!!!

Lo si può acquistare dal sito della casa editrice WLM Edizioni, su Amazon, su IBS o anche scrivendomi all’indirizzo silviarivolta79@virgilio.it.

PRESENTAZIONE:

Una crepa rompe la continuità di una superficie, dando la sensazione a chi guarda che non c’è più stabilità. Ma da essa può entrare un filo di luce….Cecilia lavora come educatrice in una casa abitata da persone con problemi psichici. L’arrivo di un personaggio particolare, Armando, la mette duramente a confronto con le proprie fragilità e paure. I suoi repentini cambi di umore, il suo comportamento minaccioso e svalutante, fanno sentire Cecilia insicura, la portano a mettere in dubbio le proprie scelte professionali. Quella casa diventa lo scenario principale in cui si svolgono le vicende ed è in giardino che avvengono le scoperte più importanti. La forza di quell’incontro travolge anche il fidanzato, Marcello, che ha sempre sostenuto e guidato Cecilia, in una relazione che ora sembra soffocarla impedendole di esprimersi. Un rapporto che viene incrinato, ulteriormente, dall’entrata in scena di un corteggiatore misterioso, capace di mettere Cecilia in contatto con parti di cui nemmeno lei è consapevole. L’improvvisa malattia del padre e la richiesta da parte dei fratelli di lasciare il suo lavoro per entrare nell’azienda di famiglia, la costringono a prendere una decisione difficile…..

 

 

 

 

 

Sostiene Pereira di Antonio Tabucchi

Non avevo mai letto Sostiene Pereira perché c’era qualcosa nel titolo e quel modo di rivolgersi al lettore che mi infastidiva. Come se mi aspettassi di leggere la cronaca di qualcosa. Quel sostiene mi allontanava. Qualche settimana fa ho iniziato un laboratorio di scrittura intitolato Storie (quasi) vere e nelle letture consigliate mi sono ritrovata questo libro.

Una storia (quasi) vera è qualcosa che non è del tutto vero, ma è una storia che per qualche motivo ha riguardato chi l’ha scritta. Sostiene Pereira ha riguardato anche a me, che l’ho letto.

Pereira è un ex giornalista di cronaca nera a cui viene affidata la pagina culturale di un giornale del pomeriggio, il “Lisboa”. Ama la letteratura del passato, soprattutto francese, ed è come se il passato diventasse l’unica sua dimensione di vita. Il passato insieme alla morte. Scrive necrologi anticipati e elogi funebri degli scrittori scomparsi a cui dedica una sezione della pagina che chiama ricorrenze. E vive nel ricordo della moglie morta, con cui parla rivolgendosi al suo ritratto, che porta sempre con sé, e nel rimpianto di non avere mai avuto un figlio. Sganciato completamente da quello che succede nel mondo, nel presente. È l’incontro con un giovane, Monteiro Rossi, a obbligarlo a prendere contatto con la realtà. E a condurlo in un lento e doloroso percorso di consapevolezza e crescita interiore che lo porterà, alla fine, ad una presa di posizione coraggiosa e molto lontana dal personaggio conosciuto all’inizio. Intenso anche l’incontro con il dottor Cardoso, che gli parla di Freud, che legge la sua condizione interiore come un conflitto tra un forte superego e un nuovo io egemone. Un personaggio che sembra secondario, ma che diventa centrale nel dar voce al conflitto interiore di Pereira, fornendogli la forza e legittimando il suo cambiamento.

La storia è ambientata a Lisbona, in Portogallo nel periodo del salazarismo portoghese, del fascismo italiano e della guerra civile spagnola. Ma al di là del periodo, al di là dell’ambiente in cui la storia è narrata, credo che Sostiene Pereira possa riguardare tutti. Pereira potremmo essere tutti noi. Per quella grandissima fatica di cambiare e anche per il coraggio di riuscire a farlo. Finalmente.

Sostiene Pereira è un libro che tutti dovremmo leggere. Tutti.

L’opera di Antonio Tabucchi è diventata una graphic novel grazie alle bellissime illustrazioni di Pierre-Henry Gomont, quella del protagonista viene ripresa nel segnalibro.

Buona lettura.

 

Il teatro dei sogni di Andrea De Carlo

Si tratta del primo libro che leggo di Andrea De Carlo. Lo dico perché guardando qua e là tra le varie opinioni relative a questo scritto ho trovato opinioni contrastanti: di chi fatica a riconoscere nell’opera le qualità dell’autore, ma c’è anche chi lo descrive come l’espressione ritrovata dello scrittore a cui nel tempo ci si è affezionati, rischiando di perderlo ad un certo punto.

Per me è tutto nuovo.

Ho iniziato a leggere Il teatro dei sogni e mi sono fermata, diverse volte. E in mezzo ci sono state altre letture. Forse perché era lontano dai miei soliti libri, dalle tematiche con cui mi trovo a mio agio.

Ma il titolo mi spingeva a riprenderlo. E poi la lettura è partita, fino alla fine.

Il teatro dei sogni. Il titolo si comprende soltanto all’ultima pagina. E forse è per questo che sono arrivata alla fine. Il sogno riguarda il desiderio di tornare ai sentimenti veri, autentici. Il tipo di sogno che può rovinare una persona, o renderla felice!

La scrittura di De Carlo è scorrevole, coinvolgente, semplice, ma nel senso che riesce a farti entrare immediatamente nella storia. E un po’ ti inganna. Perché questa piacevolezza nel leggere, in realtà, cela una situazione piuttosto desolante: quella dei social, delle apparenze, di una società e di una politica che non è interessata all’approfondimento. Ma soltanto alle notizie da gridare per poi dimenticare. È un ritratto piuttosto sconfortante di quello che ci circonda.

Mi è piaciuto molto il protagonista, Guiscardo Guidarini che con il suo Teatro dei Sogni riesce a farsi gioco di chi lo circonda e riesce a mettere in evidenza le contraddizioni e la povertà di una certa impostazione politica e sociale. Intensa la scena finale che vale tutto il libro. Che ha a che fare con l’amore.

Prima di concludere, questo è l’unica recensione per cui non ho pensato ad un segnalibro, perché ho trovato la copertina bellissima. Forse una delle più belle per un libro e con piacere ho appreso  che si  tratta di un’immagine realizzata proprio da Andrea De Carlo. Molto bella!

 

Solo un ragazzo di Elena Varvello

 

Era da molto tempo che non mi succedeva di non riuscire a smettere di leggere un libro, di doverlo finire, di andare a letto tardi e svegliarmi presto con il pensiero alla storia.

Non voglio dire della trama perché è un libro che va letto, che deve essere scoperto, che all’inizio fai fatica a comprendere perché assumi il punto di vista dei protagonisti. E vivi con loro quello che pensano, che temono, che vorrebbero. Al punto da non capire più che cosa è vero.

Il libro ti fa sentire dolore e sofferenza. Quella che il figlio, adolescente, il protagonista della storia, non è riuscito a sentire. Ha fatto succedere delle cose e basta.  Li provi tu questi vissuti al suo posto. Perché lui non ha comunicato, lui non ha detto, lui si è chiuso nel suo mondo. Attraverso lo scorrere delle pagine, riesci a vivere il dolore dei genitori, delle sorelle per non averlo compreso, per non essere riusciti a cogliere il suo disagio. Ed entri drammaticamente in quello che succede in una famiglia quando il dolore invade tutti gli spazi. E quello stesso figlio che prima quasi non si vedeva, poi diventa tutto, anche se non c’è: è ovunque, occupa ogni momento, ogni pensiero. Si litiga per lui, si smette di vivere, di mangiare, di toccarsi, di amare. Ci si sente in colpa. Si prova rabbia, si cerca di fuggire. E si muore di dolore.

La scrittura di Elena Varvello è intensa, ti fa sentire sulla pelle quello che provano i protagonisti della storia. Riesce a farti essere ciascuno di loro.

Prima di concludere, una cara lettrice del blog ha voluto condividere con me il bisogno, in questo momento così faticoso per tutto quello che sta succedendo, di libri un po’ più leggeri, meno dolorosi, in grado di fare sognare, sperare. Divertire. Quando mi ha parlato, questo libro l’avevo già letto. E ho voluto comunque presentarvelo. Non leggetelo se vi sentite appesantiti, lasciatelo per un altro momento.

Con il prossimo libro cercherò di andare in una direzione diversa, meno drammatica. Più leggera.

Alla prossima e grazie per i vostri riscontri.

 

La figlia ideale di Almudena Grandes

Come scrive l’autrice nelle sue note finali La figlia ideale è un romanzo inventato, ma costruito su fatti reali.

Questa la trama riportata sul risvolto della sovracopertina: nel 1954 German Velazquez Martin decide di tornare a casa. Aveva lasciato la Spagna un attimo prima della caduta della Repubblica grazie all’aiuto del padre, psichiatra perseguitato dai franchisti. Negli anni dell’esilio in Svizzera, German si è laureato e in seguito ha condotto una importante sperimentazione su un nuovo farmaco. Per questo gli hanno offerto un posto nel manicomio femminile di Ciempozuelos, vicino a Madrid, dove ritrova Aurora Rodriguez Carballeira, che era stata la più enigmatica fra le pazienti di suo padre. Colta e intelligentissima, Aurora era affetta da una grave forma di paranoia che l’aveva condotta a compiere il più atroce dei gesti. Condannata per l’omicidio della figlia Hildegart, Aurora vive da anni un uno stato di apatia, interrotto solo per fabbricare inquietanti pupazzi di stoffa….Scardinare le difese di una mente così intricata sarebbe impossibile senza un alleato, ma German può contare su Maria, infermiera ausiliaria già messa a dura prova dalle esperienze della vita, malgrado la giovane età. Per lei infatti Aurora ha una considerazione particolare, insieme trascorrono lunghi pomeriggi studiando le piante e consultando il mappamondo alla ricerca di posti lontani. Sfidando le convenzioni, lo psichiatra si avvicina a Maria, finche tra i due nasce un sentimento puro e fragile, che per sopravvivere dovrà sottrarsi alle ombre del passato di entrambi.

Questa la storia. Che, forse, si dilunga troppo (520 pagine) e che apre a molti, troppi personaggi, in un continuo passaggio tra il passato e il presente che rischia di farti perdere. Nonostante questo, la figura del protagonista, German, riesce a tenere le cose insieme e finisci per coinvolgerti: intense le righe sulla relazione con le pazienti del manicomio e la descrizione sugli approcci, sugli avvicinamenti a donna Aurora. Commuovente la storia della famiglia che lo accoglie in Svizzera, ebrei costretti a fuggire dalla Germania con un lutto che non supereranno mai. Tenera la storia d’amore con Maria, che intuisci fin dalle prime righe, ma che non termina come si vorrebbe. Personalmente, quello che più mi è rimasto di questo romanzo sono stati i riferimenti sull’impatto che ebbe l’asfissiante morale nazionalcattolica sulla vita privata delle internate dei manicomi e, per estensione, delle donne che vivevano nella Spagna del dopoguerrra. E, insieme, la possibilità di identificarmi con il protagonista, German,  promotore di un movimento di rinnovamento psichiatrico che metteva in discussione i metodi tradizionali per promuovere un radicale cambiamento nella cura della malattia mentale, una corrente, questa, severamente repressa dalla dittatura franchista. Il romanzo ritrae il franchismo da una prospettiva originale. Non meno drammatica. Per questo vale la pena leggerlo. E riflettere.

Buona lettura!

 

 

Le nostre anime di notte di Kent Haruf

 

 

 

 

 

 

 

 

Cittadina di Holt, Colorado. Un giorno l’anziana vedova Addie Moore fa una visita inaspettata a Louis Waters, vicino di casa anch’egli vedovo. La sua proposta è diretta: “vuoi passare le notti da me?”

Inizia così una storia di intimità, amicizia e amore, fatta di racconti sussurrati alla luce delle stelle e piccoli gesti di premura. Ma la comunità di Holt non accetta la relazione di Addie e Louis, che considera inspiegabile. Anche il figlio della donna cerca di frapporsi tra i due, usando l’affetto della madre per il nipotino Jamie come leva per convincerla a interrompere la sua frequentazione con Louis. Alla fine i due protagonisti si trovano a dover scegliere tra la propria libertà e il rimpianto.

Al di là della trama, riportata anche sul libro, credo che l’essenza di questo breve romanzo stia nella sua immediatezza. Di stile, di parole, di dialoghi che non vengono nemmeno graficamente introdotti.

La proposta ritenuta scandalosa da paese, figli, vicini, viene espressa subito, nelle prime pagine. Questo permette al lettore di sentire che non c’è tempo da perdere. Che i due protagonisti non vogliono perdere tempo. O vogliono che quel loro tempo diventi significativo, “prima che sia troppo tardi”.

In questo, l’incontro con una generazione, quella dei figli, in difficoltà rispetto a rendere significativo il tempo. Addie Moore ha un figlio e un nipote. E una nuora che viene descritta come non disposta a nessun compromesso.  Un figlio che controlla tutto, che è protettivo, che soffoca. Che non ha mai elaborato il senso di colpa per quello che è accaduto, da bambini, alla sorella Connie, investita da un auto mentre giocavano a rincorrersi. Le pagine che descrivono l’incidente, lasciano senza fiato. La morte arriva senza darti il tempo di prepararti. Questo stesso figlio, che chiede aiuto, ma non è disponibile a darne, a comprendere.

È nella terza generazione, quella di Jamie, sei anni, il nipote di Addie che l’autore colloca una possibilità. Toccano nel profondo la parole e lo scambio di Louis con il bambino davanti alla scatola dei topini, appena nati:

Sono quasi pronti per lasciare il nido, disse Louis

Cosa faranno?

Faranno quello che vedranno fare alla madre. usciranno in cerca di cibo e costruiranno un nido per conto proprio ed entreranno in contatto con altri topi e avranno dei cuccioli.

Non li vedremo più?

Probabilmente no. Potremmo vederli in giardino oppure fuori, interno al garage, lungo qualche muro o accanto al capanno. Dovremo guardare bene.

Come mai la madre se n’è andata? Li ha lasciati soli.

Ha paura di noi. Ha più paura di noi che di lasciare i cuccioli da soli.

Ma noi non facciamo niente ai topolini vero?

No. Non voglio topi in casa, ma non mi dà fastidio se stanno qui fuori.

Kent Haruf era malato mentre scriveva, un anziano malato che lotta contro il tempo per riuscire a raccontare tutta la storia che ha dentro, anche a costo di farlo senza la consueta precisione. Il libro è uscito postumo, dopo la sua morte.

Leggerlo mi ha messo in contatto con il concetto di intimità. A cosa significa per me. Cosa vuol dire vivere insieme, resistere. Rendere significativo il tempo. Non perderlo. Smettere di avere pregiudizi, smettere di giudicare. Lasciar liberi.

Nel libro, l’autore cita un componimento poetico di T.S. Eliot dal titolo Il Canto d’amore di J. Alfred Prufrock. Louis ne parla con Addie, in uno dei loro momenti di vicinanza, racconta che da giovane andava matto per la poesia. Ma quel componimento non è per un giovane, non sono versi d’amore. Raccontano solitudini esistenziali. Credo che Haruf stesse parlando a se stesso e alla seconda generazione, di cui anche io faccio parte, con la speranza che questo suo scritto ci guidi. A rendere significativo il tempo.

Ve ne riporto l’ultima parte:

Divento vecchio….divento vecchio…

Porterò i pantaloni arrotolati in fondo.

Dividerò i miei capelli sulla nuca? Avrò il coraggio di mangiare una pesca?

Porterò pantaloni di flanella bianca, e camminerò sulla spiaggia.

Ho udito le sirene cantare l’una all’altra.

Non credo che canteranno per me.

Le ho viste al largo cavalcare l’onde

Pettinare la candida chioma dell’onde risospinte:

quando il vento rigonfia l’acqua bianca e nera.

Ci siamo troppo attardati nelle camere del mare

Con le figlie del mare incoronate d’alghe rosse e brune

Finchè le voci umane ci svegliano, e anneghiamo.

 

Spero che decidiate di leggerlo.

Il segnalibro racconta di chi non smette mai di guardare avanti.

Buona lettura!

 

 

Lo Straniero di Albert Camus

Nell’edizione Bompiani, il libro viene presentato così: pubblicato nel 1942, Lo straniero è un classico della letteratura contemporanea. Protagonista è Meursault, un modesto impiegato che vive ad Algeri in uno stato di indifferenza, di estraneità a se stesso e al mondo. Un giorno, dopo un litigio, inesplicabilmente Meursault uccide un arabo. Viene arrestato e si consegna, del tutto impassibile, alle inevitabili conseguenze del fatto – il processo e la condanna a morte- senza cercare giustificazioni, difese o menzogne. Meursault è un eroe “assurdo”, e la sua lucida coscienza del reale gli permette di giungere attraverso una logica esasperata alla verità di essere e di sentire. E ancora, nell’introduzione di Roberto Saviano, questa breve descrizione: Meursault è un impiegato di origini francesi che vive ad Algeri. Ci viene presentato quando apprende la notizia della morte dell’anziana madre, e sin dal principio anche noi siamo vittime di un sentimento cui non riusciamo ancora a dare un nome: siamo straniati dalla impassibilità di Meursault. Non ci piace Meursault, è apatico. È tanto diverso da come noi immaginiamo noi stessi. Poi in un caldo pomeriggio avviene la nostra separazione definitiva dal personaggio, mentre cammina sulla spiaggia, sole negli occhi, ha uno scontro con un arabo e nella colluttazione gli spara, uccidendolo. Meursault viene arrestato e non cerca giustificazioni. Viene condannato a morte e non cerca conforto nella religione. Tutt’altro, negli ultimi momenti della sua vita ragiona su quanto tutto sia assurdo, su quanto l’universo sia insensibile e indifferente verso l’umanità. L’unica consolazione si trova forse nel destino comune.

Al termine della lettura, rileggo la presentazione: mi sembra di aver letto un altro libro. Per questo decido di approfondire.

Il titolo originale dell’opera è L’Etranger. E’ stato tradotto con Lo Straniero. Il termine “straniero” etimologicamente è legato al termine “estraneo”. La particella “stra-“ di parole quali “stra-niero”, “estra-neo”, “stra-no”, “stra-niante” derivano dalla forma latina che indica ciò che sta fuori in senso fisico, rispetto a ciò che sta dentro.

Albert Camus nacque nel 1913 in Algeria. Francese in Algeria. Francese che vive tra francesi d’oltremare. Francese che vive tra arabi. Francese che vive tra arabi che percepiscono le sue origini europee come un privilegio; eppure francese che proviene da una famiglia umile, di lavoratori. Camus nella sua vita si sentirà straniero sempre e per tutti. Lo straniero.

C’è dell’altro nella sua biografia. Camus nacque dall’amore di una madre che non sapeva leggere e scrivere e da un padre che conobbe solo in fotografia. Sua madre faceva le pulizie mentre suo padre, operaio in una cantina agricola, ferito durante la battaglia della Marne, morì con “il cranio aperto. Cieco e agonizzante durante una settimana […]”(“L’Envers et l’Endroit”, Il Rovescio e il Diritto 1938) servendo “un paese che non era suo”. Camus scrisse nella prefazione di 1958 “Solo col silenzio, col riserbo, con la naturale e sobria fierezza, questa famiglia che non sapeva nemmeno leggere, m’ha dato allora le lezioni più alte, che durano sempre”.  Il piccolo Albert crebbe con la madre affettuosa che parlava poco e il fratello maggiore Lucien ad Algeri nel quartiere popolare di Belcourt. Scriverà più tardi: “Non ho imparato la libertà da Marx. Ѐ vero: l’ho imparata dalla miseria”. Notato dal suo istitutore, Louis Germain e incoraggiato a leggere dallo zio macellaio appassionato di letteratura, Albert ottenne una borsa che gli permise di seguire studi superiori e poi universitari. Con il ruolo di portiere, fece parte della squadra di calcio “tanto amata” del Racing universitario di Algeri. Quando aveva appena 17 anni, nel 1930, Camus contrasse la tubercolosi. La malattia non gli permise di scegliere la carriera del calciatore. Gli impedì di passare il concorso per diventare insegnante di ruolo nella scuola superiore e all’università. Un suo grande desiderio. E nel 1939, ancora per la malattia, il suo arruolamento venne rifiutato.

Scrisse L’Etranger in quegli anni. L’estraneo. Forse avrei scelto questo titolo per il libro. Forse era così che Camus intendeva il suo Meursault.

Vi chiederei ora di rileggere il libro alla luce delle note biografiche, ripensando a quella indifferenza come alla necessità di vivere le proprie emozioni come qualcosa di estraneo, il mondo interno come terra straniera. Per non soffrire, per sopravvivere. Senso di estraneità, essere stranieri. Torniamo al significato etimologico di queste due parole, dall’opposizione marcata e netta tra ciò che sta dentro e ciò che sta fuori. Ogni evento o persona che minaccia i nostri confini suscita in noi paura.  Mi sembra che l’indifferenza di Meursault/Camus in realtà rappresenti il tentativo di mettere fuori quelle emozioni che rischiano di far soffrire quando la vita non va come dovrebbe. Quando alcune circostanze del tutto casuali, ti costringono a rivedere tutto: la vita senza un padre, la malattia che ti toglie ogni possibilità, i tuoi desideri.

Non ho provato antipatia per Meursault, mi ha disorientato all’inizio. Ma grazie allo stile e alla scrittura di Camus è possibile sentire tutte le emozioni che lui non si può permettere, che non vuole sentire: le trovi nelle descrizioni, tra le righe, nei profumi appena accennati, negli odori, nei rumori. Le trovi quando al funerale della madre, in presenza di una donna che piange, l’unico suo pensiero: avrei voluto non sentirla più. Non è indifferenza. Ti trovi ad emozionarti quando descrive il rapporto con Marie, la donna che lo vorrebbe sposare: ne descrive i gesti, i profumi, alcuni dettagli dell’abito, dello sguardo. Lo spostamento sui dettagli, sulle cose inanimate, sulle sensazioni del corpo forse un modo per non entrare in contatto con le parti più umane, più emozionanti. Che legano. E che rischiano di far soffrire.

L’uccisione dell’arabo arriva quando le cose che succedono sono belle, piacevoli, quasi desiderate: Ho capito che avevo distrutto l’equilibrio del giorno, il silenzio eccezionale di una spiaggia dov’ero stato felice. Allora ho sparato altre quattro volte su un corpo inerte nel quale le pallottole si conficcavano senza lasciare traccia. Ed è stato come se bussassi quattro volte alla porta dell’infelicità.

Quel gesto non è assurdo, Meursault non è un eroe “assurdo”. Quel gesto accade, ma non per caso: credo che abbia a che fare con il disperato e inconsapevole terrore della propria felicità. Farsi responsabile della propria infelicità per non trovarsi impreparato, ancora una volta, smentito dalla vita.

Ed è proprio durante la sua prigionia che Meursault entra in contatto con le sue emozioni, con il suo sentire ed è grazie alla scrittura di Camus che ci arriva tutta quella intensità: uscendo dal palazzo di giustizia per salire sul cellulare, ho riconosciuto per un breve istante l’odore e il colore delle sere d’estate. Dall’oscurità della mia prigione mobile ho ritrovato a uno a uno, come dal fondo della mia stanchezza, tutti i suoni familiari di una città che amavo e di un’ora in cui mi capitava di sentirmi contento. Il richiamo degli strilloni nell’aria già distesa, gli ultimi uccelli nei giardini, il grido dei venditori di sandwich, il lamento dei tram sui tornanti della città alta e quel rumore del cielo prima che la notte si rovesci sul porto: tutto ciò ricomponeva per me un itinerario da cieco che mi era ben noto prima di entrare in prigione. Sì era proprio l’ora in cui, tanto tempo fa, mi sentivo contento. Ad attendermi, all’epoca, era sempre un sonno leggero e senza sogni. E tuttavia qualcosa era cambiato, poiché, con l’attesa dell’indomani, quella che ho ritrovato è stata la mia cella. Come se i percorsi familiari tracciati nei cieli d’estate potessero portare tanto alle prigioni quanto ai sonni innocenti.

Non ci sono altre parole. Un libro da leggere. Nel proprio sentire si raggiungere la completezza.

Stava lavorando su un grande racconto autobiografico Le Premier Homme (Il primo uomo incompiuto, 1994) quando Albert Camus morì il 4 gennaio 1960 in un incidente d’auto guidato dal suo editore Michel Gallimard. In tasca aveva un biglietto ferroviario non utilizzato: si crede avesse pensato di compiere quel viaggio in treno, cambiando idea solo all’ultimo momento. André Malraux gli aveva appena proposto di prendere la direzione di un teatro parigino che avrebbe chiamato Nouveau théatre (Nuovo Teatro).

Il segnalibro: “Era ricoperto di pietre giallastre e di asfodeli bianchissimi sul blu già intenso del cielo

 

Il racconto dell’ancella di Margaret Atwood

L’emozione per questa recensione va al di là del libro: si tratta della prima lettura nata dalla segnalazione di una lettrice del blog. Un’amica lettrice. Ti ringrazio Marilena per aver compreso il senso di questo blog: i libri come occasione di scambio, riflessioni condivise e scambio di emozioni!

Spero e attendo altri consigli di lettura da tutti voi!!!!!

E ora veniamo al libro. La trama in breve: in un mondo devastato dalle radiazioni atomiche, gli Stati Uniti sono divenuti uno Stato Totalitario, basato sul controllo del corpo femminile. Offred ha solo un compito nella neonata Repubblica di Gilead: garantire una discendenza all’èlite dominante. Il regime monoteocratico di questa società del futuro, infatti, è fondato sullo sfruttamento delle cosiddette Ancelle, le uniche donne che dopo la catastrofe sono ancora in grado di procreare. Ma anche lo stato più repressivo non riesce a schiacciare i desideri e da questo dipenderà la possibilità e, forse, il successo di una ribellione.

Ho iniziato questo libro e dopo una decina di pagine mi sono fermata. Per un mese. Il razionale era “questo genere non fa per me”, in realtà era soltanto il tentativo di allontanare quella sgradevole sensazione di qualcosa che non ha tempo, ma che comunque, ti tocca. Ti riguarda. Non è un genere, è il tentativo di mascherare qualcosa che può riguardare tutti. Ieri, oggi e domani.

Viene definito un libro distopico. Per distopia, o anche antiutopia, si intende un libro che descrive o rappresenta uno stato futuro di cose che, in contrapposizione all’utopia, presenta situazioni e sviluppi sociali, politici e tecnologici altamente negativi, in genere indica un’ipotetica società (spesso collocata nel futuro) nella quale alcune tendenze sociali, politiche e tecnologiche percepite come negative o pericolose sono portate al loro limite estremo.

L’ho ripreso durante un viaggio in treno di ritorno dalle vacanze di Natale e non è stato possibile smettere, nonostante permanesse quel senso di disagio: qualcosa di impossibile che non lo era del tutto, che tentava di essere impersonale e freddo ma che poi ti coinvolgeva con emozioni, sentimenti, ricordi.

Il libro viene raccontato in prima persona, della protagonista arriviamo a conoscerne il nome soltanto a pag. 266 e questo ti porta inevitabilmente a identificarti. Offred. Perché di Fred. Non il suo vero nome, ma quello stabilito dalla Repubblica di Gilead. Offred. Of Fred. Di Fred. Appartenente a Fred.

Alcune parti ti costringono a fermarti. Crude verità.

 “Noi abbiamo dato loro più di quanto non abbiamo tolto” dice il Comandante. “pensate alla situazione in cui si trovavano prima, pensate ai bar per donne sole, all’indegnità degli appuntamenti a sorpresa. Era il mercato della carne. Non ricordate il terribile divario tra coloro che potevano avere un uomo facilmente e quelle per le quali era impossibile? Alcune di loro, prese dalla disperazione, deperivano per dimagrire, altre si gonfiavano i seni col silicone, altre ancora si facevano tagliare il naso. Quanta infelicità!” Accenna, agitando una mano, a una pila di vecchie riviste.

“Si lamentavano sempre. Problemi di qui, problemi là. Vi ricordate delle colonne di annunci personali? Vivace, graziosa, trentacinquenne….in questo modo un uomo lo trovavano, ma poi, se si sposavano, spesso restavano sole, con un figlio o due perché il marito, stanco di loro, scompariva, così che si trovavano costrette ad affidarsi alla pubblica assistenza. Oppure, se avevano un lavoro, dovevano lasciare i figli al doposcuola o affidarli a qualche donna ignorante e brutale, che dovevano pagare loro stesse, sottraendo il denaro alle loro misere buste paga. Il denaro era l’unica misura del valore, per tutte, l’essere madri non dava diritto al rispetto. Non c’è da meravigliarsi quindi che stessero addirittura rinunciando alla maternità. Ora, invece, sono protette, possono adempiere in pace ai loro destini biologici, con pieno sostegno e incoraggiamento. Adesso, ditemi il vostro parere, siete persone intelligenti, vorrei sapere che ne pensate. C’è qualcosa che abbiamo trascurato?”

“L’amore” rispondo.  “l’innamorarsi….”

Questo scambio, quello più significativo del libro, va avanti e descrive la vita a Gilead: parla di autorità maschile, della necessità di sottomettersi all’autorità maschile. Alla maternità come possibilità di salvezza. Dal peccato originale. All’amore. Alle donne che amavano. E che si sentivano libere di cambiare. Senza limiti. E alla condanna alla fissità. Che apre necessariamente a ciò che è necessario nascondere. Le prostitute. Le donne nel club.

E in testa alcune domande del mio presente: cosa c’entra la libertà con l’assenza di limiti? Cosa c’entra l’amore con l’assenza di limiti? Cosa significa sentirsi libera?

E nelle pagine finali, quelle in cui vengono riportati gli atti del simposio del 2195 in cui storici partendo da  Il Racconto dell’Ancella, quale testimonianza storica e diretta, si confrontano sull’organizzazione di Gilead:

“Come abbiamo sentito durante la discussione del comitato di esperti, Gilead, sebbene indubbiamente patriarcale nella forma, fu saltuariamente  matriarcale nel contenuto (….) Come gli artefici di Gilead ben sapevano, per istituire un sistema totalitario efficace o invero un qualsiasi sistema è necessario offrire qualche beneficio e qualche libertà, almeno a pochi privilegiati, in cambio di ciò che viene loro tolto. A questo proposito è opportuno un commento sull’organizzazione femminile di controllo nota come le Zie. Judd, era dell’opinione fin dall’inizio che fosse più efficace ed economico far controllare le donne, a scopi riproduttivi e altro, a opera delle stesse donne. Non mancavano i precedenti storici; infatti in qualsiasi impero, imposto con la forza o in altro modo, il controllo degli indigeni è sempre stato effettuato da membri del loro stesso gruppo. Nel caso di Gilead, c’erano molte donne desiderose di coprire il ruolo di Zie, sia a causa di un’autentica fiducia in ciò che chiamavano “valori tradizionali”, sia per i benefici che potevano trarne. Quando il potere è scarso, averne anche solo un poco costituisce una tentazione. C’è un altro incentivo: donne senza figli o sterili o anziane, che non fossero sposate, potevano prendere servizio nei ranghi delle Zie e quindi sfuggire al rischio del sovrannumero e al conseguente invio per mare alle infami Colonie, che erano costituite da popolazioni mobili usate soprattutto per la rimozione di materiale tossico, anche se, con un po’ di fortuna, si poteva venire assegnati a compiti meno rischiosi, quali la raccolta del cotone o della frutta”.

Mi sono domandata quale fosse il significato profondo del termine matriarcato e a scoprire che nel mondo oggi esistono oltre cento società matriarcali. Una società matriarcale è una comunità di persone basata sulla centralità della figura femminile. Luoghi dove non è necessaria una “Festa della mamma”, perché la maternità e la femminilità sono celebrate ogni giorno. Queste società, che oggi è possibile rinvenire soprattutto in Asia, nelle Americhe e in Africa corrono il serio rischio di sparire sotto la forte spinta della globalizzazione. In alcuni testi, viene riportato che il loro valore non è soltanto storico (alcune di queste organizzazioni vantano una tradizione millenaria), anche perché la loro struttura politica, economica, sociale e spirituale può essere di grande importanza per noi occidentali, in quanto ci insegna a organizzare e promuovere società non violente e mutuali, dove le donne sono al centro dell’ordinamento sociale, ma non per questo ricorrono a forme di dominio per guidare la propria comunità. Ecco il punto, spesso si confonde il matriarcato con l’idea di “dominio della donna”. In realtà, in siffatte organizzazioni sociali, ci si basa su una vera e propria partnership uomo-donna, che continua a tener vivo un diverso modello di civiltà per donne e uomini. Ora mi è più chiaro: patriarcato o matriarcato, poco cambia quando  la logica è quella del dominio.

Nelle pagine conclusive, negli atti del Dodicesimo Simposio di Studi Gileadiani del 2195 vengono citate le opere del relatore tra cui Iran e Gilead: due Monoteocrazie del Tardo Secolo Ventesimo viste attraverso i diari. Il libro è stato scritto nel 1985, letto da me nel 2020, lo studio futuristico del 2195.

La sensazione che poco o  nulla sia cambiato. Vorrei che questo libro fosse letto per far nascere domande e riflessioni. Forse è più un libro da donne, per donne. Ne vale la pena.

Il segnalibro, una figura ambigua, uomo o donna? Chi comanda nella Repubblica di Gilead: uomini sulla carta ma donne nella sostanza. Chi domina e chi viene dominato?