La quarta parete di Sorj Chalandon

La quarta parete è quel muro immaginario che dal lato del palcoscenico separa gli attori dal pubblico, ma allo stesso tempo li unisce in un patto in cui la finzione è accettata e il dubbio sospeso.

Nel mito di Antigone, Creonte re di Tebe vieta di seppellire il corpo del nipote Polinice accusato di tradimento perché ha tentato di assediare la città. Antigone, sorella di Polinice, viola la legge imposta da Creonte. L’opera di Sofocle si concentra su tale divieto e sullo scarto esistente tra la sfera pubblica, della polis, e quella privata, della famiglia. Il valore della polis è assoluto: chi difende la città è nel giusto mentre, al contrario, chi ne è nemico risulta sempre colpevole. Per Antigone, il rispetto della morte viene prima di tutto. Le visioni sono inconciliabili e Sofocle evidenzia l’assenza di una soluzione che metta d’accordo tutti, sancendo la morte di Antigone e la distruzione della casata di Creonte.

Nel 1942, Jean Anouilh, grande appassionato dei classici greci, reinterpreta il dramma di Sofocle in un atto unico, in prosa, rivolto verso il doloroso momento storico in cui si trova a vivere. Era l’anno in cui Parigi, sotto il governo di Vichy, subisce l’assedio nazista. Nella sua opera, il dramma non è solo di Antigone ma anche di Creonte, dipinto come un sovrano saggio e per niente dispotico: egli non dimentica il suo dovere nei confronti della polis, nemmeno alla fine della tragedia. La giovane Antigone di Anouilh è desiderosa di battersi per rivendicare se stessa, al di là della pietà nei confronti del fratello. La ragazza ha bisogno di affermare il suo valore con un’azione eclatante, che sottolinei la forza dei suoi ideali e, mediante la sepoltura del fratello, conquista non solo visibilità agli occhi del mondo, ma anche consenso e approvazione. La tragedia di Anouilh si allinea alla perfezione con i propositi dello scritto di Sofocle: Antigone continua con la sua morte a prevalere su Creonte, trasformandosi nell’emblema della lotta contro le ingiustizie e i soprusi, preservando gli intenti più nobili in nome di una fratellanza che non è più solo di sangue ma universale.

Questa lunga premessa per arrivare al romanzo. La quarta parete racconta la storia di Georges, giovane ricercatore parigino con la passione per il teatro. Siamo all’alba degli anni Ottanta, il Maggio francese è passato da poco lasciando sul terreno disillusione e un generale senso di sconfitta. In Libano invece infuria una guerra civile. Samuel Akunis, regista greco di origini ebraiche, scappato alla dittatura ha un progetto: mettere in scena l’Antigone di Anouilh tra le strade di Beirut, straziate dalle lotte intestine e crivellate dai cecchini. Per la tragedia bisogna patteggiare una tregua di due ore e mettere insieme un cast che dia voce a ciascuna delle parti in campo: Antigone canterà la nostalgia della terra di Palestina, Creonte farà risuonare la fede maronita, Emone brucerà dell’amore di un druso. Samuel non potrà proseguire nella regia, malato gravemente chiede aiuto all’amico di sempre, Georges. Per lui sarà una scelta obbligata e toccherà a lui proseguire nella regia dell’Antigone. Una tragedia che diverrà totale e assoluta in cui la quarta parete collasserà: il palcoscenico allora diventa la vita, la finzione diventa la realtà. Un unico totale dramma in cui il lettore invece che verso una tregua, andrà incontro alla morte. Vera. Tragica. Che umilia. Che toglie dignità. Non c’è niente di emblematico e trionfalistico nella morte dell’Antigone di Georges. C’è soltanto il vuoto di senso. Che angoscia. Che ti lascia senza fiato.

Per Georges quello della guerra diventerà un mondo da cui non si torna indenni. E affrontare la sua personale quarta parete lo metterà a confronto con le difficoltà di fare rientro nella vita.

 

In principio, confusione e paura di Reuveni

 

Questo è un libro che mi è stato consigliato, non credo ci sarei mai arrivata da sola perché l’avrei scambiato per un libro storico o di politica. Che solitamente tendo ad evitare. Ma chi me l’ha segnalato non si occupa né di storia, né di politica, ma di fatti umani, di relazioni, di mondi interni. Per questo l’ho letto. Ed è questo che ho trovato.

Partirei dall’autore: Reuveni è nato nel 1886 in Ucraina e poi si è trasferito in Palestina nel 1910 diventando non solo spettatore, ma anche attore della nascita sofferta dello Stato Israeliano. Ha vissuto quel principio. La confusione e la paura, da cui il titolo, le ha vissute prima di metterle in scena nella trilogia che attraversa gli anni successivi alla prima guerra mondiale, trilogia della quale questo libro è la prima parte, l’unica pubblicata.

Siamo a Gerusalemme poco prima dell’inizio del primo conflitto mondiale. La Palestina è una provincia della Turchia. E la Turchia entra in guerra con la Russia. La maggior parte degli ebrei immigrati a Gerusalemme in cerca della propria patria vengono dalla Russia e si trovano a vivere in uno stato, quello ottomano, che è allo stesso tempo ospitante, ma anche occupante e nemico in guerra.

I personaggi del libro ruotano attorno alla redazione di un giornale socialista. Il loro modo di porsi rispetto alle vicende sociali e politiche rivela un crescendo di confusione e di paura che porterà ciascuno a prendere una posizione diversa. Se al principio, la tensione riguarda l’interrogativo: saremo tollerati o considerati nemici? Successivamente, una scelta da fare: opporre resistenza, ottomanizzarsi o partire condannandosi all’ennesima diaspora? Per ciascuno questi interrogativi aprono a vicende personali ma anche a percorsi interni e con loro il lettore è portato a riflettere: al concetto di appartenenza, a quanto sia importante, quasi necessario; a cosa significa resistere per difendere la propria identità culturale e ideologica. A cosa significa essere portatori di un’identità culturale ed ideologica senza però una madre patria. Un territorio che ci vede nascere, crescere e tornare quando ne abbiamo bisogno. Cosa diventa a quel punto l’identità di ciascuno? Da cosa passa il senso di appartenenza? Come si risponde alla paura e alla confusione dovuta all’instabilità identitaria? Penso a tutti questi personaggi anche come parti interne di ciascuno: che dialogano, litigano che si scontrano nel processo di individuazione e di crescita. Confusione e paura accompagnano il percorso di tutti verso le proprie scelte o verso le non scelte e quest’ultimo modo di muoversi nella vita prende la forma del contabile Tziprovitch, il classico inetto della letteratura ebraica, nel suo non voler prendere alcuna decisione permette di osservare le contraddizioni degli uomini attorno a sé: chi rinuncia alla propria identità culturale, chi rinuncia all’appartenenza territoriale e chi rimane, in preda a continue incertezze, insicurezze, indecisioni, timori. In attesa che qualcuno o qualcosa decida per lui.

Tutto questo rende l’opera di Reuveni quanto mai attuale e moderna.

Il segnalibro, l’abbraccio di una madre patria…..

 

La vita davanti a sè di Romain Gary (Emile Ajar)

Io mi chiamo Mohammed, ma mi chiamano tutti Momò per far prima.

“Sessant’anni fa, quando ero giovane, ho incontrato una ragazza che mi ha amato e che ho amato anch’io. È andata avanti per otto mesi, poi lei ha cambiato casa, e io me ne ricordo ancora sessant’anni dopo. Le dicevo: “Non ti dimenticherò”. Passavano gli anni e io non la dimenticavo. Certe volte avevo paura perché avevo ancora molta vita davanti a me, e che promessa potevo mai fare a me stesso, io, povero uomo, se è Dio che tiene in mano la gomma da cancellare? Adesso però sono tranquillo. Non dimenticherò Djamila. Mi resta poco tempo, morirò prima”.

Ho pensato a Madame Rosa, ho esitato un po’ e poi ho domandato:

“Signor Hamil, si può vivere senza amore? “

Non ha risposto. Ha bevuto un po’ di thè alla menta che fa bene alla salute. Da un po’ di tempo il signor Hamil portava sempre una jellaba grigia, per non farsi trovare in giacchetta al momento della chiamata. Mi ha guardato ed è rimasto in silenzio. Doveva pensare che ero ancora vietato ai minori e che c’erano delle cose che non dovevo sapere. A quel tempo dovevo avere sette anni o forse otto, non ve lo posso dire con precisione perché non sono stato datato, come saprete quando ci conosceremo meglio, se trovare che ne vale la pena.

“Signor Hamil, perché non mi rispondete?”

“Sei molto giovane, e quando si è molto giovani ci sono delle cose che è meglio non sapere”

“Signor Hamil si può vivere senza amore?”

“Sì” ha detto, e ha abbassato la testa come se si vergognasse.

Mi sono messo a piangere.

Con questo dialogo si apre La vita davanti a sé: un dialogo che ti lascia senza fiato per la sua immediatezza, una domanda che si ripete per tutta la storia: una ripetizione che nasce da un’angoscia, dalla paura della solitudine, dal disperato tentativo di avere un’altra risposta. E di trovare quell’amore che rende possibile vivere la vita davanti a sé.

La vita davanti a sé racconta la storia di Momò, un ragazzino arabo e musulmano, nella banlieue di Belleville, figlio di nessuno, accudito da una vecchia prostituta ebrea, Madame Rosa. È la storia di un profondo amore materno, in un condominio della periferia francese dove non contano i legami di sangue e dove le tragedie della storia di ciascuno diventano un patrimonio collettivo, punti di incontro e di collaborazione che aiutano ad andare avanti. Un romanzo sentimentale e poetico, una storia che viene raccontata e vista dagli occhi di un bambino; una voce narrante ingenua che pur registrando le contraddizioni della realtà non rinuncia ai legami, agli affetti. Li ricerca in continuazione.

Uno stile narrativo semplice, immediato ma che riesce a cogliere la complessità delle relazioni tra persone con tutte le sfumature emotive ed affettive che ne derivano.

Non ho mai faticato così tanto a scrivere di un libro e nel tentare di farlo ho compreso il motivo: il piccolo Momò riesce a dar voce a quelle angosce da cui gli adulti si difendono e scrivere di questa storia ti obbliga a passare ad un livello più profondo. Passare dalla narrazione al sentire quello che provi: e allora, mentre le pagine scorrono, entri in contatto con i bisogni di vicinanza, di affetto, di accudimento, di affiliazione. Di appartenenza. Bisogni che fanno superare ciò che sembra impossibile da conciliare: e quindi scopri un mondo in cui una mamma ebrea può prendersi cura di un bimbo arabo, musulmano. Bisogni con cui gli adulti faticano ad entrare in contatto. Che sentono, ma che spesso non concedono e non si concedono. Commuove il finale, quando il giovane Momò parla della famiglia che l’ha accolto: vi hanno chiamato perché ci avete il telefono, avevano creduto che foste qualcosa per me. E’ stato così che siete venuti tutti e che mi avete preso con voi in campagna senza nessun obbligo da parte mia. Io penso che avesse ragione il signor Hamil quando ci aveva ancora tutta la testa e che non si può vivere senza nessuno da amare, ma non vi prometto niente, bisogna vedere. Io ho amato Madame Rosa e continuerò a vederla. Ma voglio lo stesso restare con voi un certo tempo, visto che sono i vostri marmocchi a volerlo. È stata la signora Nadine che mi ha fatto vedere come si può fare a far andare il mondo all’indietro e la cosa mi interessa molto e la desidero con tutto il cuore.

Questo libro è stato pubblicato la prima volta nel 1975, ha vinto il Goncourt, il più prestigioso premio letterario francese, ed Emile Ajar, il suo misterioso autore divenne di colpo il romanziere più promettente degli anni Settanta. Nel 1980 il colpo di scena. La comparsa nelle librerie di Vita e Morte di Emile Ajar, un libretto di Romain Gary dato alle stampe pochi mesi dopo la sua morte, rivelò al mondo letterario francese una verità inaspettata: l’autore di queste pagine era Gary stesso, l’eroe di guerra, il diplomatico, già vincitore di un Goncourt considerato un romanziere oramai in declino. L’unico a riuscire nell’impresa di vincere due Goncourt (impossibile per il regolamento). Nel dicembre del 1980 Gary si uccide, con un colpo di pistola alla testa. Ho voluto approfondire: dopo una vita tragica e avventurosa, spesso mondana e segnata dalla costante pulsione a mescolare e imbrogliare carte e piste, personaggi e identità (se ne inventerà almeno cinque), Gary a 66 anni, dopo una cena, sembra essere tornato a casa, aver chiuso le tende della sua stanza e dopo aver poggiato sull’orecchio un telo da bagno rosso ha premuto il grilletto. Scrivono che non volesse impressionare con il suo sangue chi fosse intervenuto.   Sul tavolino, un messaggio indirizzato al suo editore: «Nessun rapporto con Jean Seberg. Quelli che amano i cuori infranti sono pregati d’indirizzarsi altrove (..) Perché allora? Forse la risposta va cercata nel titolo del mio libro autobiografico, La notte sarà calma, e nelle ultime parole del mio ultimo romanzo “poiché non si potrebbe dire meglio”: in fondo mi sono espresso pienamente». Un anno prima, l’ex moglie Jean Seberg, l’attrice americana di ventiquattro anni più giovane di lui, dalla quale, dopo aver avuto un figlio, si era separato nel 1970 (ma aveva continuato a frequentarla e a proteggerla), era stata trovata morta di un’overdose di barbiturici in una Renault 5, parcheggiata nel sedicesimo arrondissement di Parigi.

Risuona dentro di me la domanda del piccolo Momò: “…si può vivere senza amore?”.

Prima di concludere, l’edizione illustrata da Manuele Fior (la vedete nella foto) vale veramente la pena.

Il segnalibro…..rappresenta l’essenza del libro. Guardare avanti, nella relazione.

 

L’eleganza del riccio di Muriel Barbery

Ho avuto questo libro sul comodino per tre anni. lo comprai appena divenne un caso editoriale. Ho fatto diversi tentativi ma non sono mai riuscita ad andare oltre la decima pagina. C’era qualcosa di disturbante in quelle prime pagine: mi chiamo Renée. Ho cinquantaquattro anni…sono vedova, bassa, brutta, grassottella, ho i calli ai piedi e, se penso a certe mattine autolesionistiche, l’alito di un mammut. Non ho studiato, sono sempre stata povera, discreta e insignificante. E l’altra protagonista, Paloma: Io ho dodici anni….la gente crede di inseguire le stelle e finisce come un pesce rosso in una boccia. Mi chiedo se non sarebbe più semplice insegnare fin da subito ai bambini che la vita è assurda…per questo ho preso una decisione: alla fine dell’anno scolastico, il giorno dei miei tredici anni, il 16 giugno prossimo, mi suicido.  

Una cara amica recentemente mi ha incoraggiato a riprovarci, ad andare oltre quel disturbo. È stato un grande regalo. E spero lo possa essere anche per voi. L’eleganza del riccio racconta la storia di molti: la difficoltà di mostrarsi per come si è, assumendo uno spirito oppositivo e provocatorio come quello di Paloma; nascondersi per il timore di coprire altre posizioni, per una convinzione più o meno inconscia di non poterselo meritare.

Il disturbo iniziale lascia spazio alla tenerezza, alla semplicità anche come scelta narrativa e stilistica; l’incontro con il giapponese apre ad un crescendo di piacere, desiderio, in cui arrivi a credere nel cambiamento. Alla possibilità che qualcosa possa cambiare. Il finale, un drammatico ritorno alla realtà. Profetiche le parole di Renée: ero destinata alla punizione se solo avessi osato trarre vantaggio dalla mia mente a dispetto della mia classe sociale. In definitiva, poiché non potevo smettere di essere ciò che ero, la mia unica possibilità mi parve quella del segreto: dovevo tacere ciò che ero e non intromettermi mai nell’altro mondo. Un finale che, d’altra parte, spinge la giovane Paloma ad incontrare il mondo. A scegliere la vita: che espone a disperazione, ma anche ad istanti di bellezza.

Il segnalibro, non so se abbia a che fare con il libro…..ma il mio tentativo di descriverlo è stato interrotto da una spinta creativa, quasi urgente, che ha preso questa forma….forse la rappresentazione di ciò che era stato sempre nascosto…..un’ elegante bellezza. Alla prossima…..

 

Occhi Felici di Ingeborg Bachmann

Il segnalibro ha cercato di rendere l’idea di un mondo con forme e contorni indefiniti. Come quello che preferisce guardare Miranda.