Recensioni

Se tu fossi neve di Eleonora Sottili

 

 

Ho conosciuto ed apprezzato Eleonora Sottili nel suo corso di scrittura creativa. Il suo più grande insegnamento, dalla prima lezione, citando Calvino e le sue lezioni americane: il lettore è interessato a storie. Il libro funziona quando il lettore vuole andare avanti, coinvolto in quello che succederà. Quando in scena ci sono persone che fanno cose, con oggetti.

Questo libro racconta storie. Belle, delicate, originali, che incuriosiscono, che ti fanno conoscere cose nuove. C’è Jason che per ritrovare la donna che l’ha fatto innamorare, La Ragazza Col Cappello da Fantino, inizia a disegnare tutte le persone di New York e divide Manhattan in 8112 angoli. Poi c’è Zadie la ragazzina che per tenere vivo il ricordo della madre si prepara alla spedizione al Polo Sud immergendosi in una vasca da bagno piena di ghiaccio. Ci sono Doug e Filippo che decorano la torta per celebrare il loro amore con i protagonisti di Dieci Piccoli Indiani di Agatha Christie, uno per ciascun anno del loro amore.  C’è Charlie Todd che organizza performance con lo scopo, non del tutto consapevole, di avvicinare il confine tra cosa sia vero e cosa no. E poi c’è Alice, che ha paura, che desidera smettere di averne e per poterlo fare s’immagina un’altra Alice che vaga per lo spazio, senza timori, senza esitazioni. È grazie a lei che l’autrice apre a rappresentazioni che ti rimangono dentro: come quando parla di Lisa Simpson, sì quella dei cartoni animati, di cui Alice arrangia i dialoghi per il doppiaggio e che sta facendo diventare troppo malinconica e anche un po’ polemica; Lisa la cui testa, riporta l’autrice, sembra essere molto difficile da disegnare  bisogna seguire un procedimento complicatissimo diceva  uno dei disegnatori, David Silverman. Alice aveva affidato proprio a quella testa tormenti e ragionamenti sulla fine delle sue storie. Insomma, il lettore vuole leggere di cose che succedono e tutto ciò che è astratto e introspettivo viene messo nella testa di un cartone animato. Non rischi così di allontanarti da Alice, ma ti avvicini a lei.

Le storie di ciascuno proseguono, si sviluppano arrivando ad incontrarsi al centro di una tempesta di neve. Si sfiora il dramma, si rimane in quelle pagine per sciogliere la tensione che cresce.  Tutto finisce in un e vissero felici e contenti.  Anche il lettore, che alla fine, in ciascuno di quei personaggi ha visto e sentito qualcosa di sé, per questo se n’è affezionato. Senza accorgersene.

Attraverso le cose che fanno, questi personaggi smettono di essere tali e diventano persone con un passato, con sentimenti, con emozioni, paure e desideri. Con le loro fragilità e debolezze. Eleonora, la lezione finalmente l’ho compresa! E ti ringrazio.

Al segnalibro abbiamo voluto affidare quella parte di Alice, ragazza dello spazio, che balla Garota di Ipanema come aveva fatto Pete Conrad, astronauta dell’Apollo 12 una volta sbarcato sulla Luna. La Luna è blu, la seconda luna piena del mese.

Un Amore di Dino Buzzati

 

Per qualche settimana mi sono fermata. Pensavo fosse sconveniente in questo momento scrivervi di libri. C’erano altre notizie, indicazioni, provvedimenti, aggiornamenti che era necessario e primario condividere. Su cui concentrare la nostra attenzione.

Non si è però fermata la mia voglia di leggere, di scoprire, di immaginare, di sognare. Anzi è aumentata. Aumenta giorno dopo giorno e mi aiuta ad affrontare questo momento così difficile. Pupi Avati in una lettera di qualche giorni fa scriveva dell’effetto terapeutico della bellezza. Mi auguro che con questi stimoli di lettura possiate trascorrere qualche minuto piacevole. Leggero.

Veniamo al libro di oggi. L’impossibilità di andare in libreria, i tempi lunghi delle consegne postali mi hanno portato a fare appelli disperati alla mia famiglia: “cerco libri che non ho mai letto!!!”. La zia Paola ha fatto succedere una specie di miracolo: quel libro che da tempo volevo leggere, proprio quello, in un’edizione della Mondadori datata agosto 1977 già solo averlo in mano…il libro è Un amore di Buzzati.

L’occasione è unica. L’inizio del romanzo viene preceduto da cenni biografici e da un’antologia critica che presenta l’opera. Due autori ne hanno colto l’essenza e mi faceva piacere condividerle con voi (anche perché non credo sarà più possibile recuperarne l’edizione!!!). Eugenio Montale scrive: ci troviamo nel cuore del più acceso realismo e psicologismo, nella dissezione quasi anatomica di un sentimento amoroso che molti diranno patologico, ma che in realtà tutti gli uomini che non hanno gli occhi e il cuore foderati da una cotenna di lardo hanno almeno virtualmente provato. Questa spiegazione finale, in una scena che in sé è perfetta, non toglie nulla all’armonia di un libro molto bello (il più bel libro a sfondo erotico che sia uscito dal tempo di Paolo il Caldo di Brancati). Carlo Bo aggiunge: non saprei dire se Buzzati ha scritto il suo libro più bello so però che ci ha dato con Un amore un libro coraggioso, a suo modo una confessione. Di solito, uno scrittore non accetta di scendere direttamente sul campo della battaglia sentimentale, aspetta, da buon calcolatore prende le sue precauzioni e le sue misure. Buzzati ha buttato tutto per aria e ha portato la sua confessione su un terreno che fino a ieri appariva minato e pieno di avvertimenti e di esclusioni. Ecco perché subito ci era sembrato giusto mettere l’accento sul coraggio: un uomo, uno scrittore coraggiosi non si trovano tanto sovente. Buzzati ha avuto il merito di riportare alla luce questa categoria e pagando di persona.

Veniamo al romanzo: è stato scritto alla fine degli anni ’50. La vicenda, ambientata a Milano, vede come protagonista Antonio Dorigo, avvocato di quarantanove anni che non era stato mai capace di instaurare con una donna lo stesso rapporto di confidenza che aveva con gli amici. Per lui “La donna, forse a motivo dell’educazione familiare, gli era parsa sempre una creatura straniera” e con l’altro sesso riesce ad avere rapporti solamente di carattere mercenario. Antonio ha l’abitudine di frequentare la casa di appuntamenti della signora Ermelina. Ed è in quella casa che un pomeriggio di febbraio del 1960, l’uomo conosce la Laide, diminutivo di Adelaide, ragazza minorenne. Ne sarà attratto, da subito. Continuerà a chiedere di lei. Il romanzo descrive quello che si scatena da quell’incontro: ne diviene una vicenda veloce ed angosciosa  fra passione e gelosia, rivolta e disperazione. Laide sconvolge la vita dell’architetto Antonio, la misura dei suoi rapporti umani con gli amici, il lavoro e la madre. Antonio fa quello che non aveva mai fatto: gli sembra d’essere ringiovanito ( le corse sull’autostrada, le cene nei fine settimana, i balli nei locali di moda, gli appostamenti, le sorprese), in realtà si rende conto di quanto non sia che la resa, la dipendenza da quella giovane. Che anzi, non perde occasione di umiliarlo, di raccontare bugie. Dorigo pur comprendendo, continua a volerla accanto. Per riempire una vita fino a quel momento vuota e dominata dalla paura della solitudine. E della morte. “Sì l’amore gli aveva fatto completamente dimenticare che esisteva la morte”.

Il romanzo coinvolge chi legge.  Fino quasi all’imbarazzo. Per la sincerità, l’intensità con cui vengono descritte le vicende che fanno muovere Dorigo. Provi tenerezza, pena, ma anche tanta rabbia. Perché nonostante si renda conto, rimane in quella vicenda d’amore. Che è amore solo per lui. E lui lo sa. La paga, la mantiene, si fa usare. Si fa umiliare dalla donna. E nonostante tutto, non riesce a prendere una distanza definitiva.

Il romanzo è ambientato a Milano: l’autore riesce a regalarci una rappresentazione di una situazione culturale in cui la realtà milanese è metropoli ma insieme il simbolo della Babele d’ogni tempo, certe sue piazzette, certi suoi grovigli di vicoli, certi angoli secreti. Il tormento interiore di Dorigo, ci avvicina ai conflitti di un uomo maturo attratto dalla giovinezza, ma anche quelli del borghese-milanese colto affascinato da ciò che è popolare. Laide infatti non solo rappresenta il proletariato, ma anche i miti di quegli anni in cui le classi meno colte si gettavano a capofitto (auto veloci, i night club, il consumismo che avanzava) di cui Buzzati-Dorigo avverte tutta l’ energia.

Un intimo amico di Buzzati ha raccontato che prima dell’inizio di Un amore, Buzzati credeva che l’amore fosse facile e formale. Da quel momento, cominciò per lui l’incubo che la donna amata potesse sfuggirgli, mancare agli appuntamenti, addirittura dissolversi. Come la Laide nel libro.

Quando il libro venne pubblicato per Mondadori nel 1963 lo stesso autore ha precisato: Solo alcuni sanno cosa sia l’amore. Se no, ce ne accorgeremmo. Quando arrivano queste cose, uno non può controllarsi, e l’amore si rivela, si manifesta. Non dico che non ce ne siano, di amori, ma sono pochi. Se uno ama una donna, è logico che voglia vincere a tutti i costi, magari mentendosi come fa Antonio Dorigo. E poi, il mio libro finisce in bellezza. Non è calcolato, non è costruito. L’ho scritto con la stessa spontaneità del Deserto dei Tartari. Esprime il mio stato d’animo e la mia esperienza, ma ho un po’ aggravato le tinte. Ma non ho voluto scrivere un libro audace, magari per seguire la corrente. Lo avrei scritto anche se quel genere che ora va di moda fosse morto da un pezzo. E respingo anche l’accusa che si tratti interamente di autobiografia. La protagonista non esiste; ci ho messo solo alcuni tratti della ragazza che io ho amato e ho attribuito a lei tratti d’altre donne. Se è lecito essere un po’ presuntuosi, dirò che c’è tanta autenticità che sinceramente in altri libri non conosco”.

Il segnalibro è evocativo…..

Buona lettura.

 

Non superare le dosi consigliate di C.R. d’Orsogna

 

Mi stanno arrivando tante segnalazioni di persone che hanno letto i libri che ho recensito e di altre che vorrebbero che scrivessi di libri che hanno letto o che vorrebbero leggere. Il blog funziona!!! E vi ringrazio tanto.

Il libro di oggi “Non superare le dosi consigliate” mi è stato segnalato da Elena, collega con cui condivido ogni tanto viaggi da e per la Svizzera.  Lettrice accanita! Che ringrazio!

“Non c’è un problema che un farmaco non curi, mamma lo dice sempre. A casa nostra non si parla, si prendono medicine. Così lei mi dà il Dulcolax ogni sera perché sono una bambina grassa. Due compresse, quattro, otto. E io non so che legame ci sia tra il Dulcolax e una bambina grassa visto che non dimagrisco….”. C’è un peso che non puoi perdere, anche quando l’hai perso tutto. Matilde lo sa: la mamma, bulimica, passa le giornate a vomitare; lei ha cominciato a ingrassare quando aveva sei anni ed è affamata da una vita. A scuola elemosina biscotti, a casa ruba il pane, e intanto sogna che gli taglino la mano. Ottanta chili a sedici anni, a diciotto quarantotto; Matilde va in America a studiare, splende, ma la fame e la paura le vengono dietro. Finchè dopo la morte della madre, il tracollo finanziario del padre e una relazione violenta, supera i centotrenta chili. E quando esce, c’ è sempre qualcuno che la guarda con disprezzo. Allora Matilde si chiude in casa per tre anni, e suoi social si finge normale. Ma che vuol dire normale? Un romanzo crudo e potente tra due lingue e due culture, tra gli anni Settanta e oggi. Un libro vorticoso tra perfezionismo, autolesionismo, menzogna e dipendenze.

Succede spesso che io inizi le mie recensioni riportando le presentazioni scelte dalla casa editrice. E poi mi capita di fare delle ricerche qua e là: l’uscita del libro è stato preceduto da un articolo scritto dalla stessa autrice e apparso su “7” il supplemento del Corriere della Sera, dal titolo “Storia della mia grassezza ( e di come ho deciso di non abbozzare più)”.  Sull’onda del grandissimo interesse nato per il pezzo, a romanzo già scritto, ne è nata anche una rubrica.

Ho trovato moltissimi contributi, di donne che si sono identificate, che dichiarano che avrebbero potuto scrivere la stessa storia e altre che, al contrario, dicono di aver capito poco di questa donna. Che si tratta di uno scritto irto di ostacoli, ripetitivo, che sono 250 pagine che lasciano il lettore esausto. Altre che, in riferimento alla protagonista Matilde, dichiarano che non conquista, che non lega a sé, che non riesce a far empatizzare con il suo dolore. Che non trasmette, che non lascia nulla a chi la incontra e che anzi ci si dimentica di lei appena si termina la lettura, con la sensazione di essere finalmente liberi.

Per quanto mi riguarda, sono altre le considerazioni che voglio condividere con voi.

A pagina 35, l’autrice fa una citazione che torna spesso nel corso del romanzo: Innocence, or ignorance, direbbe Alice Munro nel racconto che ha segnato la mia vita, An Ounce of Cure. Mi sono incuriosita. Il racconto di cui parla si trova nella raccolta “Danze delle Ombre felici” della Munro, nella traduzione italiana il titolo è Il rimedio. Poco più di 10 pagine. Parla di una ragazzina, adolescente, di indole spinosa. Di una casa in cui non si beve, o meglio si beve fuori. E di un rapporto con la madre per la quale l’ignoranza o l’ innocenza se preferisci, non è sempre la meraviglia che la gente crede, e ho paura che potrebbe rivelarsi un pericolo per una come te. Nel racconto, la protagonista vive una delusione d’amore e mesi di autentica disperazione seppure in larga misura autoinflitta. La madre, che si accorge che qualcosa non va, le compra dei ricostituenti a base di ferro, le chiede della scuola. Una sera, impegnata come baby sitter, a contatto con sentimenti di solitudine e tristezza, la ragazza si ubriaca, sta male, la scoprono, la rimproverano, la riportano a casa. Per tutti irresponsabile, le sue tristezze vengono usate dalla madre per non fare brutta figura con i vicini. Ci fu però un risvolto positivo e meravigliosamente inatteso in questa vicenda (….) Che cosa fu dunque a riportarmi coi piedi per terra? Fu la tangibilità atroce e ammaliante del mio disastro; fu vedere “come andavano le cose”. Non che mi fosse piaciuto; ero timida e tutta quella risonanza mi fece soffrire molto. Ma il concatenarsi dei fatti di quel sabato sera mi affascinò; ebbi la sensazione di aver gettato un’occhiata sulla prodigiosa, devastante e spudorata assurdità con cui si improvvisano le trame della vita, a differenza di quelle dei romanzi. Non riuscivo a distogliere lo sguardo. E, a proposito dell’ultimo incontro con il ragazzo oramai adulto: Notai che mi stava guardando con l’espressione più simile a un sorriso memore che le circostanze permettessero. E capii che lo aveva sorpreso il ricordo vuoi della mia devozione, vuoi del mio modesto scheletro nell’armadio. Ricambiai con un’occhiata cortese e priva d’intesa. Sono una donna adulta, ormai; ciascuno si dissotterri i propri, di scheletri.

In generale, per rimedio s’intende un farmaco o un trattamento medico indicato per alleviare o combattere una malattia. Provvedimento più o meno efficace, diretto a sanare una condizione negativa o sfavorevole. Alleviare, combattere, sanare. Di comprendere non vi è traccia.

Penso alla protagonista del racconto della Munro che vede gli adulti bere dell’alcool prima di uscire, erano tutti piuttosto allegri. Li vede traccannare gli aperitivi come fossero bibite. E penso a come spesso, quando entriamo in contatto con sofferenze e vissuti di tristezza, in maniera un po’ infantile,  facciamo quello che vediamo fare agli altri. Per uscire anche noi piuttosto allegri (innocence or ignorance). E penso alla protagonista Matilde che vede la mamma vomitare, che la vede prendere del Dulcolax, che la chiama cretina, che le da lo stesso lassativo perché è grassa. L’alcool e il cibo, il vomito e i lassativi come rimedio.

Per tutta la lettura di “Non superare le dosi consigliate” mi sono domandata cosa abbia spinto l’autrice a scrivere questa storia, quelle 250 pagine piene di parole, di cose che accadono, che stancano, che quasi ti allontanano per quanto sono vere, dirette e piene di dolore.

Mi sono detta se non fosse proprio nel tentativo di passare da quell’ innocence or ignorance a, come alla fine del racconto della Munro, “vedere come andavano le cose”. Comprenderle. Promuovendo anche nel lettore la spinta a farsi domande, a cercare di comprendere, creare legami di senso.

Perché un rimedio senza comprensione non porta al cambiamento. A crescere. A dissotterrare i propri scheletri nell’armadio. Perché gli scheletri possano riposare in pace. Nel posto giusto.

Il segnalibro, un’ironica caricatura….

Lo Straniero di Albert Camus

 

Nell’edizione Bompiani, il libro viene presentato così: pubblicato nel 1942, Lo straniero è un classico della letteratura contemporanea. Protagonista è Meursault, un modesto impiegato che vive ad Algeri in uno stato di indifferenza, di estraneità a se stesso e al mondo. Un giorno, dopo un litigio, inesplicabilmente Meursault uccide un arabo. Viene arrestato e si consegna, del tutto impassibile, alle inevitabili conseguenze del fatto – il processo e la condanna a morte- senza cercare giustificazioni, difese o menzogne. Meursault è un eroe “assurdo”, e la sua lucida coscienza del reale gli permette di giungere attraverso una logica esasperata alla verità di essere e di sentire. E ancora, nell’introduzione di Roberto Saviano, questa breve descrizione: Meursault è un impiegato di origini francesi che vive ad Algeri. Ci viene presentato quando apprende la notizia della morte dell’anziana madre, e sin dal principio anche noi siamo vittime di un sentimento cui non riusciamo ancora a dare un nome: siamo straniati dalla impassibilità di Meursault. Non ci piace Meursault, è apatico. È tanto diverso da come noi immaginiamo noi stessi. Poi in un caldo pomeriggio avviene la nostra separazione definitiva dal personaggio, mentre cammina sulla spiaggia, sole negli occhi, ha uno scontro con un arabo e nella colluttazione gli spara, uccidendolo. Meursault viene arrestato e non cerca giustificazioni. Viene condannato a morte e non cerca conforto nella religione. Tutt’altro, negli ultimi momenti della sua vita ragiona su quanto tutto sia assurdo, su quanto l’universo sia insensibile e indifferente verso l’umanità. L’unica consolazione si trova forse nel destino comune.

Al termine della lettura, rileggo la presentazione: mi sembra di aver letto un altro libro. Per questo decido di approfondire.

Il titolo originale dell’opera è L’Etranger. E’ stato tradotto con Lo Straniero. Il termine “straniero” etimologicamente è legato al termine “estraneo”. La particella “stra-“ di parole quali “stra-niero”, “estra-neo”, “stra-no”, “stra-niante” derivano dalla forma latina che indica ciò che sta fuori in senso fisico, rispetto a ciò che sta dentro.

Albert Camus nacque nel 1913 in Algeria. Francese in Algeria. Francese che vive tra francesi d’oltremare. Francese che vive tra arabi. Francese che vive tra arabi che percepiscono le sue origini europee come un privilegio; eppure francese che proviene da una famiglia umile, di lavoratori. Camus nella sua vita si sentirà straniero sempre e per tutti. Lo straniero.

C’è dell’altro nella sua biografia. Camus nacque dall’amore di una madre che non sapeva leggere e scrivere e da un padre che conobbe solo in fotografia. Sua madre faceva le pulizie mentre suo padre, operaio in una cantina agricola, ferito durante la battaglia della Marne, morì con “il cranio aperto. Cieco e agonizzante durante una settimana […]”(“L’Envers et l’Endroit”, Il Rovescio e il Diritto 1938) servendo “un paese che non era suo”. Camus scrisse nella prefazione di 1958 “Solo col silenzio, col riserbo, con la naturale e sobria fierezza, questa famiglia che non sapeva nemmeno leggere, m’ha dato allora le lezioni più alte, che durano sempre”.  Il piccolo Albert crebbe con la madre affettuosa che parlava poco e il fratello maggiore Lucien ad Algeri nel quartiere popolare di Belcourt. Scriverà più tardi: “Non ho imparato la libertà da Marx. Ѐ vero: l’ho imparata dalla miseria”. Notato dal suo istitutore, Louis Germain e incoraggiato a leggere dallo zio macellaio appassionato di letteratura, Albert ottenne una borsa che gli permise di seguire studi superiori e poi universitari. Con il ruolo di portiere, fece parte della squadra di calcio “tanto amata” del Racing universitario di Algeri. Quando aveva appena 17 anni, nel 1930, Camus contrasse la tubercolosi. La malattia non gli permise di scegliere la carriera del calciatore. Gli impedì di passare il concorso per diventare insegnante di ruolo nella scuola superiore e all’università. Un suo grande desiderio. E nel 1939, ancora per la malattia, il suo arruolamento venne rifiutato.

Scrisse L’Etranger in quegli anni. L’estraneo. Forse avrei scelto questo titolo per il libro. Forse era così che Camus intendeva il suo Meursault.

Vi chiederei ora di rileggere il libro alla luce delle note biografiche, ripensando a quella indifferenza come alla necessità di vivere le proprie emozioni come qualcosa di estraneo, il mondo interno come terra straniera. Per non soffrire, per sopravvivere. Senso di estraneità, essere stranieri. Torniamo al significato etimologico di queste due parole, dall’opposizione marcata e netta tra ciò che sta dentro e ciò che sta fuori. Ogni evento o persona che minaccia i nostri confini suscita in noi paura.  Mi sembra che l’indifferenza di Meursault/Camus in realtà rappresenti il tentativo di mettere fuori quelle emozioni che rischiano di far soffrire quando la vita non va come dovrebbe. Quando alcune circostanze del tutto casuali, ti costringono a rivedere tutto: la vita senza un padre, la malattia che ti toglie ogni possibilità, i tuoi desideri.

Non ho provato antipatia per Meursault, mi ha disorientato all’inizio. Ma grazie allo stile e alla scrittura di Camus è possibile sentire tutte le emozioni che lui non si può permettere, che non vuole sentire: le trovi nelle descrizioni, tra le righe, nei profumi appena accennati, negli odori, nei rumori. Le trovi quando al funerale della madre, in presenza di una donna che piange, l’unico suo pensiero: avrei voluto non sentirla più. Non è indifferenza. Ti trovi ad emozionarti quando descrive il rapporto con Marie, la donna che lo vorrebbe sposare: ne descrive i gesti, i profumi, alcuni dettagli dell’abito, dello sguardo. Lo spostamento sui dettagli, sulle cose inanimate, sulle sensazioni del corpo forse un modo per non entrare in contatto con le parti più umane, più emozionanti. Che legano. E che rischiano di far soffrire.

L’uccisione dell’arabo arriva quando le cose che succedono sono belle, piacevoli, quasi desiderate: Ho capito che avevo distrutto l’equilibrio del giorno, il silenzio eccezionale di una spiaggia dov’ero stato felice. Allora ho sparato altre quattro volte su un corpo inerte nel quale le pallottole si conficcavano senza lasciare traccia. Ed è stato come se bussassi quattro volte alla porta dell’infelicità.

Quel gesto non è assurdo, Meursault non è un eroe “assurdo”. Quel gesto accade, ma non per caso: credo che abbia a che fare con il disperato e inconsapevole terrore della propria felicità. Farsi responsabile della propria infelicità per non trovarsi impreparato, ancora una volta, smentito dalla vita.

Ed è proprio durante la sua prigionia che Meursault entra in contatto con le sue emozioni, con il suo sentire ed è grazie alla scrittura di Camus che ci arriva tutta quella intensità: uscendo dal palazzo di giustizia per salire sul cellulare, ho riconosciuto per un breve istante l’odore e il colore delle sere d’estate. Dall’oscurità della mia prigione mobile ho ritrovato a uno a uno, come dal fondo della mia stanchezza, tutti i suoni familiari di una città che amavo e di un’ora in cui mi capitava di sentirmi contento. Il richiamo degli strilloni nell’aria già distesa, gli ultimi uccelli nei giardini, il grido dei venditori di sandwich, il lamento dei tram sui tornanti della città alta e quel rumore del cielo prima che la notte si rovesci sul porto: tutto ciò ricomponeva per me un itinerario da cieco che mi era ben noto prima di entrare in prigione. Sì era proprio l’ora in cui, tanto tempo fa, mi sentivo contento. Ad attendermi, all’epoca, era sempre un sonno leggero e senza sogni. E tuttavia qualcosa era cambiato, poiché, con l’attesa dell’indomani, quella che ho ritrovato è stata la mia cella. Come se i percorsi familiari tracciati nei cieli d’estate potessero portare tanto alle prigioni quanto ai sonni innocenti.

Non ci sono altre parole. Un libro da leggere. Nel proprio sentire si raggiungere la completezza.

Stava lavorando su un grande racconto autobiografico Le Premier Homme (Il primo uomo incompiuto, 1994) quando Albert Camus morì il 4 gennaio 1960 in un incidente d’auto guidato dal suo editore Michel Gallimard. In tasca aveva un biglietto ferroviario non utilizzato: si crede avesse pensato di compiere quel viaggio in treno, cambiando idea solo all’ultimo momento. André Malraux gli aveva appena proposto di prendere la direzione di un teatro parigino che avrebbe chiamato Nouveau théatre (Nuovo Teatro).

Il segnalibro: “Era ricoperto di pietre giallastre e di asfodeli bianchissimi sul blu già intenso del cielo

Il racconto dell’ancella di Margaret Atwood

 

L’emozione per questa recensione va al di là del libro: si tratta della prima lettura nata dalla segnalazione di una lettrice del blog. Un’amica lettrice. Ti ringrazio Marilena per aver compreso il senso di questo blog: i libri come occasione di scambio, riflessioni condivise e scambio di emozioni!

Spero e attendo altri consigli di lettura da tutti voi!!!!!

E ora veniamo al libro. La trama in breve: in un mondo devastato dalle radiazioni atomiche, gli Stati Uniti sono divenuti uno Stato Totalitario, basato sul controllo del corpo femminile. Offred ha solo un compito nella neonata Repubblica di Gilead: garantire una discendenza all’èlite dominante. Il regime monoteocratico di questa società del futuro, infatti, è fondato sullo sfruttamento delle cosiddette Ancelle, le uniche donne che dopo la catastrofe sono ancora in grado di procreare. Ma anche lo stato più repressivo non riesce a schiacciare i desideri e da questo dipenderà la possibilità e, forse, il successo di una ribellione.

Ho iniziato questo libro e dopo una decina di pagine mi sono fermata. Per un mese. Il razionale era “questo genere non fa per me”, in realtà era soltanto il tentativo di allontanare quella sgradevole sensazione di qualcosa che non ha tempo, ma che comunque, ti tocca. Ti riguarda. Non è un genere, è il tentativo di mascherare qualcosa che può riguardare tutti. Ieri, oggi e domani.

Viene definito un libro distopico. Per distopia, o anche antiutopia, si intende un libro che descrive o rappresenta uno stato futuro di cose che, in contrapposizione all’utopia, presenta situazioni e sviluppi sociali, politici e tecnologici altamente negativi, in genere indica un’ipotetica società (spesso collocata nel futuro) nella quale alcune tendenze sociali, politiche e tecnologiche percepite come negative o pericolose sono portate al loro limite estremo.

L’ho ripreso durante un viaggio in treno di ritorno dalle vacanze di Natale e non è stato possibile smettere, nonostante permanesse quel senso di disagio: qualcosa di impossibile che non lo era del tutto, che tentava di essere impersonale e freddo ma che poi ti coinvolgeva con emozioni, sentimenti, ricordi.

Il libro viene raccontato in prima persona, della protagonista arriviamo a conoscerne il nome soltanto a pag. 266 e questo ti porta inevitabilmente a identificarti. Offred. Perché di Fred. Non il suo vero nome, ma quello stabilito dalla Repubblica di Gilead. Offred. Of Fred. Di Fred. Appartenente a Fred.

Alcune parti ti costringono a fermarti. Crude verità.

 “Noi abbiamo dato loro più di quanto non abbiamo tolto” dice il Comandante. “pensate alla situazione in cui si trovavano prima, pensate ai bar per donne sole, all’indegnità degli appuntamenti a sorpresa. Era il mercato della carne. Non ricordate il terribile divario tra coloro che potevano avere un uomo facilmente e quelle per le quali era impossibile? Alcune di loro, prese dalla disperazione, deperivano per dimagrire, altre si gonfiavano i seni col silicone, altre ancora si facevano tagliare il naso. Quanta infelicità!” Accenna, agitando una mano, a una pila di vecchie riviste.

“Si lamentavano sempre. Problemi di qui, problemi là. Vi ricordate delle colonne di annunci personali? Vivace, graziosa, trentacinquenne….in questo modo un uomo lo trovavano, ma poi, se si sposavano, spesso restavano sole, con un figlio o due perché il marito, stanco di loro, scompariva, così che si trovavano costrette ad affidarsi alla pubblica assistenza. Oppure, se avevano un lavoro, dovevano lasciare i figli al doposcuola o affidarli a qualche donna ignorante e brutale, che dovevano pagare loro stesse, sottraendo il denaro alle loro misere buste paga. Il denaro era l’unica misura del valore, per tutte, l’essere madri non dava diritto al rispetto. Non c’è da meravigliarsi quindi che stessero addirittura rinunciando alla maternità. Ora, invece, sono protette, possono adempiere in pace ai loro destini biologici, con pieno sostegno e incoraggiamento. Adesso, ditemi il vostro parere, siete persone intelligenti, vorrei sapere che ne pensate. C’è qualcosa che abbiamo trascurato?”

“L’amore” rispondo.  “l’innamorarsi….”

Questo scambio, quello più significativo del libro, va avanti e descrive la vita a Gilead: parla di autorità maschile, della necessità di sottomettersi all’autorità maschile. Alla maternità come possibilità di salvezza. Dal peccato originale. All’amore. Alle donne che amavano. E che si sentivano libere di cambiare. Senza limiti. E alla condanna alla fissità. Che apre necessariamente a ciò che è necessario nascondere. Le prostitute. Le donne nel club.

E in testa alcune domande del mio presente: cosa c’entra la libertà con l’assenza di limiti? Cosa c’entra l’amore con l’assenza di limiti? Cosa significa sentirsi libera?

E nelle pagine finali, quelle in cui vengono riportati gli atti del simposio del 2195 in cui storici partendo da  Il Racconto dell’Ancella, quale testimonianza storica e diretta, si confrontano sull’organizzazione di Gilead:

“Come abbiamo sentito durante la discussione del comitato di esperti, Gilead, sebbene indubbiamente patriarcale nella forma, fu saltuariamente  matriarcale nel contenuto (….) Come gli artefici di Gilead ben sapevano, per istituire un sistema totalitario efficace o invero un qualsiasi sistema è necessario offrire qualche beneficio e qualche libertà, almeno a pochi privilegiati, in cambio di ciò che viene loro tolto. A questo proposito è opportuno un commento sull’organizzazione femminile di controllo nota come le Zie. Judd, era dell’opinione fin dall’inizio che fosse più efficace ed economico far controllare le donne, a scopi riproduttivi e altro, a opera delle stesse donne. Non mancavano i precedenti storici; infatti in qualsiasi impero, imposto con la forza o in altro modo, il controllo degli indigeni è sempre stato effettuato da membri del loro stesso gruppo. Nel caso di Gilead, c’erano molte donne desiderose di coprire il ruolo di Zie, sia a causa di un’autentica fiducia in ciò che chiamavano “valori tradizionali”, sia per i benefici che potevano trarne. Quando il potere è scarso, averne anche solo un poco costituisce una tentazione. C’è un altro incentivo: donne senza figli o sterili o anziane, che non fossero sposate, potevano prendere servizio nei ranghi delle Zie e quindi sfuggire al rischio del sovrannumero e al conseguente invio per mare alle infami Colonie, che erano costituite da popolazioni mobili usate soprattutto per la rimozione di materiale tossico, anche se, con un po’ di fortuna, si poteva venire assegnati a compiti meno rischiosi, quali la raccolta del cotone o della frutta”.

Mi sono domandata quale fosse il significato profondo del termine matriarcato e a scoprire che nel mondo oggi esistono oltre cento società matriarcali. Una società matriarcale è una comunità di persone basata sulla centralità della figura femminile. Luoghi dove non è necessaria una “Festa della mamma”, perché la maternità e la femminilità sono celebrate ogni giorno. Queste società, che oggi è possibile rinvenire soprattutto in Asia, nelle Americhe e in Africa corrono il serio rischio di sparire sotto la forte spinta della globalizzazione. In alcuni testi, viene riportato che il loro valore non è soltanto storico (alcune di queste organizzazioni vantano una tradizione millenaria), anche perché la loro struttura politica, economica, sociale e spirituale può essere di grande importanza per noi occidentali, in quanto ci insegna a organizzare e promuovere società non violente e mutuali, dove le donne sono al centro dell’ordinamento sociale, ma non per questo ricorrono a forme di dominio per guidare la propria comunità. Ecco il punto, spesso si confonde il matriarcato con l’idea di “dominio della donna”. In realtà, in siffatte organizzazioni sociali, ci si basa su una vera e propria partnership uomo-donna, che continua a tener vivo un diverso modello di civiltà per donne e uomini. Ora mi è più chiaro: patriarcato o matriarcato, poco cambia quando  la logica è quella del dominio.

Nelle pagine conclusive, negli atti del Dodicesimo Simposio di Studi Gileadiani del 2195 vengono citate le opere del relatore tra cui Iran e Gilead: due Monoteocrazie del Tardo Secolo Ventesimo viste attraverso i diari. Il libro è stato scritto nel 1985, letto da me nel 2020, lo studio futuristico del 2195.

La sensazione che poco o  nulla sia cambiato. Vorrei che questo libro fosse letto per far nascere domande e riflessioni. Forse è più un libro da donne, per donne. Ne vale la pena.

Il segnalibro, una figura ambigua, uomo o donna? Chi comanda nella Repubblica di Gilead: uomini sulla carta ma donne nella sostanza. Chi domina e chi viene dominato?

La quarta parete di Sorj Chalandon

 

La quarta parete è quel muro immaginario che dal lato del palcoscenico separa gli attori dal pubblico, ma allo stesso tempo li unisce in un patto in cui la finzione è accettata e il dubbio sospeso.

Nel mito di Antigone, Creonte re di Tebe vieta di seppellire il corpo del nipote Polinice accusato di tradimento perché ha tentato di assediare la città. Antigone, sorella di Polinice, viola la legge imposta da Creonte. L’opera di Sofocle si concentra su tale divieto e sullo scarto esistente tra la sfera pubblica, della polis, e quella privata, della famiglia. Il valore della polis è assoluto: chi difende la città è nel giusto mentre, al contrario, chi ne è nemico risulta sempre colpevole. Per Antigone, il rispetto della morte viene prima di tutto. Le visioni sono inconciliabili e Sofocle evidenzia l’assenza di una soluzione che metta d’accordo tutti, sancendo la morte di Antigone e la distruzione della casata di Creonte.

Nel 1942, Jean Anouilh, grande appassionato dei classici greci, reinterpreta il dramma di Sofocle in un atto unico, in prosa, rivolto verso il doloroso momento storico in cui si trova a vivere. Era l’anno in cui Parigi, sotto il governo di Vichy, subisce l’assedio nazista. Nella sua opera, il dramma non è solo di Antigone ma anche di Creonte, dipinto come un sovrano saggio e per niente dispotico: egli non dimentica il suo dovere nei confronti della polis, nemmeno alla fine della tragedia. La giovane Antigone di Anouilh è desiderosa di battersi per rivendicare se stessa, al di là della pietà nei confronti del fratello. La ragazza ha bisogno di affermare il suo valore con un’azione eclatante, che sottolinei la forza dei suoi ideali e, mediante la sepoltura del fratello, conquista non solo visibilità agli occhi del mondo, ma anche consenso e approvazione. La tragedia di Anouilh si allinea alla perfezione con i propositi dello scritto di Sofocle: Antigone continua con la sua morte a prevalere su Creonte, trasformandosi nell’emblema della lotta contro le ingiustizie e i soprusi, preservando gli intenti più nobili in nome di una fratellanza che non è più solo di sangue ma universale.

Questa lunga premessa per arrivare al romanzo. La quarta parete racconta la storia di Georges, giovane ricercatore parigino con la passione per il teatro. Siamo all’alba degli anni Ottanta, il Maggio francese è passato da poco lasciando sul terreno disillusione e un generale senso di sconfitta. In Libano invece infuria una guerra civile. Samuel Akunis, regista greco di origini ebraiche, scappato alla dittatura ha un progetto: mettere in scena l’Antigone di Anouilh tra le strade di Beirut, straziate dalle lotte intestine e crivellate dai cecchini. Per la tragedia bisogna patteggiare una tregua di due ore e mettere insieme un cast che dia voce a ciascuna delle parti in campo: Antigone canterà la nostalgia della terra di Palestina, Creonte farà risuonare la fede maronita, Emone brucerà dell’amore di un druso. Samuel non potrà proseguire nella regia, malato gravemente chiede aiuto all’amico di sempre, Georges. Per lui sarà una scelta obbligata e toccherà a lui proseguire nella regia dell’Antigone. Una tragedia che diverrà totale e assoluta in cui la quarta parete collasserà: il palcoscenico allora diventa la vita, la finzione diventa la realtà. Un unico totale dramma in cui il lettore invece che verso una tregua, andrà incontro alla morte. Vera. Tragica. Che umilia. Che toglie dignità. Non c’è niente di emblematico e trionfalistico nella morte dell’Antigone di Georges. C’è soltanto il vuoto di senso. Che angoscia. Che ti lascia senza fiato.

Per Georges quello della guerra diventerà un mondo da cui non si torna indenni. E affrontare la sua personale quarta parete lo metterà a confronto con le difficoltà di fare rientro nella vita.

In principio, confusione e paura di Reuveni

 

 

Questo è un libro che mi è stato consigliato, non credo ci sarei mai arrivata da sola perché l’avrei scambiato per un libro storico o di politica. Che solitamente tendo ad evitare. Ma chi me l’ha segnalato non si occupa né di storia, né di politica, ma di fatti umani, di relazioni, di mondi interni. Per questo l’ho letto. Ed è questo che ho trovato.

Partirei dall’autore: Reuveni è nato nel 1886 in Ucraina e poi si è trasferito in Palestina nel 1910 diventando non solo spettatore, ma anche attore della nascita sofferta dello Stato Israeliano. Ha vissuto quel principio. La confusione e la paura, da cui il titolo, le ha vissute prima di metterle in scena nella trilogia che attraversa gli anni successivi alla prima guerra mondiale, trilogia della quale questo libro è la prima parte, l’unica pubblicata.

Siamo a Gerusalemme poco prima dell’inizio del primo conflitto mondiale. La Palestina è una provincia della Turchia. E la Turchia entra in guerra con la Russia. La maggior parte degli ebrei immigrati a Gerusalemme in cerca della propria patria vengono dalla Russia e si trovano a vivere in uno stato, quello ottomano, che è allo stesso tempo ospitante, ma anche occupante e nemico in guerra.

I personaggi del libro ruotano attorno alla redazione di un giornale socialista. Il loro modo di porsi rispetto alle vicende sociali e politiche rivela un crescendo di confusione e di paura che porterà ciascuno a prendere una posizione diversa. Se al principio, la tensione riguarda l’interrogativo: saremo tollerati o considerati nemici? Successivamente, una scelta da fare: opporre resistenza, ottomanizzarsi o partire condannandosi all’ennesima diaspora? Per ciascuno questi interrogativi aprono a vicende personali ma anche a percorsi interni e con loro il lettore è portato a riflettere: al concetto di appartenenza, a quanto sia importante, quasi necessario; a cosa significa resistere per difendere la propria identità culturale e ideologica. A cosa significa essere portatori di un’identità culturale ed ideologica senza però una madre patria. Un territorio che ci vede nascere, crescere e tornare quando ne abbiamo bisogno. Cosa diventa a quel punto l’identità di ciascuno? Da cosa passa il senso di appartenenza? Come si risponde alla paura e alla confusione dovuta all’instabilità identitaria? Penso a tutti questi personaggi anche come parti interne di ciascuno: che dialogano, litigano che si scontrano nel processo di individuazione e di crescita. Confusione e paura accompagnano il percorso di tutti verso le proprie scelte o verso le non scelte e quest’ultimo modo di muoversi nella vita prende la forma del contabile Tziprovitch, il classico inetto della letteratura ebraica, nel suo non voler prendere alcuna decisione permette di osservare le contraddizioni degli uomini attorno a sé: chi rinuncia alla propria identità culturale, chi rinuncia all’appartenenza territoriale e chi rimane, in preda a continue incertezze, insicurezze, indecisioni, timori. In attesa che qualcuno o qualcosa decida per lui.

Tutto questo rende l’opera di Reuveni quanto mai attuale e moderna.

Il segnalibro, l’abbraccio di una madre patria…..

La vita davanti a sè di Romain Gary (Emile Ajar)

 

Io mi chiamo Mohammed, ma mi chiamano tutti Momò per far prima.

“Sessant’anni fa, quando ero giovane, ho incontrato una ragazza che mi ha amato e che ho amato anch’io. È andata avanti per otto mesi, poi lei ha cambiato casa, e io me ne ricordo ancora sessant’anni dopo. Le dicevo: “Non ti dimenticherò”. Passavano gli anni e io non la dimenticavo. Certe volte avevo paura perché avevo ancora molta vita davanti a me, e che promessa potevo mai fare a me stesso, io, povero uomo, se è Dio che tiene in mano la gomma da cancellare? Adesso però sono tranquillo. Non dimenticherò Djamila. Mi resta poco tempo, morirò prima”.

Ho pensato a Madame Rosa, ho esitato un po’ e poi ho domandato:

“Signor Hamil, si può vivere senza amore? “

Non ha risposto. Ha bevuto un po’ di thè alla menta che fa bene alla salute. Da un po’ di tempo il signor Hamil portava sempre una jellaba grigia, per non farsi trovare in giacchetta al momento della chiamata. Mi ha guardato ed è rimasto in silenzio. Doveva pensare che ero ancora vietato ai minori e che c’erano delle cose che non dovevo sapere. A quel tempo dovevo avere sette anni o forse otto, non ve lo posso dire con precisione perché non sono stato datato, come saprete quando ci conosceremo meglio, se trovare che ne vale la pena.

“Signor Hamil, perché non mi rispondete?”

“Sei molto giovane, e quando si è molto giovani ci sono delle cose che è meglio non sapere”

“Signor Hamil si può vivere senza amore?”

“Sì” ha detto, e ha abbassato la testa come se si vergognasse.

Mi sono messo a piangere.

Con questo dialogo si apre La vita davanti a sé: un dialogo che ti lascia senza fiato per la sua immediatezza, una domanda che si ripete per tutta la storia: una ripetizione che nasce da un’angoscia, dalla paura della solitudine, dal disperato tentativo di avere un’altra risposta. E di trovare quell’amore che rende possibile vivere la vita davanti a sé.

La vita davanti a sé racconta la storia di Momò, un ragazzino arabo e musulmano, nella banlieue di Belleville, figlio di nessuno, accudito da una vecchia prostituta ebrea, Madame Rosa. È la storia di un profondo amore materno, in un condominio della periferia francese dove non contano i legami di sangue e dove le tragedie della storia di ciascuno diventano un patrimonio collettivo, punti di incontro e di collaborazione che aiutano ad andare avanti. Un romanzo sentimentale e poetico, una storia che viene raccontata e vista dagli occhi di un bambino; una voce narrante ingenua che pur registrando le contraddizioni della realtà non rinuncia ai legami, agli affetti. Li ricerca in continuazione.

Uno stile narrativo semplice, immediato ma che riesce a cogliere la complessità delle relazioni tra persone con tutte le sfumature emotive ed affettive che ne derivano.

Non ho mai faticato così tanto a scrivere di un libro e nel tentare di farlo ho compreso il motivo: il piccolo Momò riesce a dar voce a quelle angosce da cui gli adulti si difendono e scrivere di questa storia ti obbliga a passare ad un livello più profondo. Passare dalla narrazione al sentire quello che provi: e allora, mentre le pagine scorrono, entri in contatto con i bisogni di vicinanza, di affetto, di accudimento, di affiliazione. Di appartenenza. Bisogni che fanno superare ciò che sembra impossibile da conciliare: e quindi scopri un mondo in cui una mamma ebrea può prendersi cura di un bimbo arabo, musulmano. Bisogni con cui gli adulti faticano ad entrare in contatto. Che sentono, ma che spesso non concedono e non si concedono. Commuove il finale, quando il giovane Momò parla della famiglia che l’ha accolto: vi hanno chiamato perché ci avete il telefono, avevano creduto che foste qualcosa per me. E’ stato così che siete venuti tutti e che mi avete preso con voi in campagna senza nessun obbligo da parte mia. Io penso che avesse ragione il signor Hamil quando ci aveva ancora tutta la testa e che non si può vivere senza nessuno da amare, ma non vi prometto niente, bisogna vedere. Io ho amato Madame Rosa e continuerò a vederla. Ma voglio lo stesso restare con voi un certo tempo, visto che sono i vostri marmocchi a volerlo. È stata la signora Nadine che mi ha fatto vedere come si può fare a far andare il mondo all’indietro e la cosa mi interessa molto e la desidero con tutto il cuore.

Questo libro è stato pubblicato la prima volta nel 1975, ha vinto il Goncourt, il più prestigioso premio letterario francese, ed Emile Ajar, il suo misterioso autore divenne di colpo il romanziere più promettente degli anni Settanta. Nel 1980 il colpo di scena. La comparsa nelle librerie di Vita e Morte di Emile Ajar, un libretto di Romain Gary dato alle stampe pochi mesi dopo la sua morte, rivelò al mondo letterario francese una verità inaspettata: l’autore di queste pagine era Gary stesso, l’eroe di guerra, il diplomatico, già vincitore di un Goncourt considerato un romanziere oramai in declino. L’unico a riuscire nell’impresa di vincere due Goncourt (impossibile per il regolamento). Nel dicembre del 1980 Gary si uccide, con un colpo di pistola alla testa. Ho voluto approfondire: dopo una vita tragica e avventurosa, spesso mondana e segnata dalla costante pulsione a mescolare e imbrogliare carte e piste, personaggi e identità (se ne inventerà almeno cinque), Gary a 66 anni, dopo una cena, sembra essere tornato a casa, aver chiuso le tende della sua stanza e dopo aver poggiato sull’orecchio un telo da bagno rosso ha premuto il grilletto. Scrivono che non volesse impressionare con il suo sangue chi fosse intervenuto.   Sul tavolino, un messaggio indirizzato al suo editore: «Nessun rapporto con Jean Seberg. Quelli che amano i cuori infranti sono pregati d’indirizzarsi altrove (..) Perché allora? Forse la risposta va cercata nel titolo del mio libro autobiografico, La notte sarà calma, e nelle ultime parole del mio ultimo romanzo “poiché non si potrebbe dire meglio”: in fondo mi sono espresso pienamente». Un anno prima, l’ex moglie Jean Seberg, l’attrice americana di ventiquattro anni più giovane di lui, dalla quale, dopo aver avuto un figlio, si era separato nel 1970 (ma aveva continuato a frequentarla e a proteggerla), era stata trovata morta di un’overdose di barbiturici in una Renault 5, parcheggiata nel sedicesimo arrondissement di Parigi.

Risuona dentro di me la domanda del piccolo Momò: “…si può vivere senza amore?”.

Prima di concludere, l’edizione illustrata da Manuele Fior (la vedete nella foto) vale veramente la pena.

Il segnalibro…..rappresenta l’essenza del libro. Guardare avanti, nella relazione.

La vita accanto di Mariapia Veladiano

 

Ho sempre letto libri scelti e comprati da me. Un libro lo acquistavo e lo leggevo. Ne leggevo la recensione, ascoltavo chi me ne parlava e poi lo acquistavo. I libri regalati, per qualche motivo finivano in coda alle mie letture e spesso lì ci rimanevano. Inevitabilmente, finivo per scegliere qualcosa che si somigliava, che mi somigliava. Soltanto negli ultimi anni ho iniziato a leggere libri prestati e consigliati da amici o colleghi, condivisi tra noi: un’apertura che mi ha permesso di leggere libri che da sola, forse non avrei mai scelto. L’apertura alla condivisione dei libri rimanda alla maggiore disponibilità nei confronti degli altri, ha a che fare con la fiducia, con la possibilità di aprirsi, di conoscere e di scoprire di sé, dagli altri. Straordinariamente, tutto questo ha a che fare con il libro di cui desidero parlarvi oggi, che mi è stato prestato da Elisabetta:  s’ intitola La vita accanto di Mariapia Veladiano.

Inizia con queste parole: Una donna brutta non ha a disposizione nessun punto di vista superiore da cui poter raccontare la propria storia. (….). La si racconta dall’angolo in cui la vita ci ha strette, attraverso la fessura che la paura e la vergogna ci lasciano aperta giusto per respirare, giusto per non morire. Una donna brutta non sa dire i propri desideri. Conosce solo quelli che può permettersi. (…) si tratta di esistere sempre in punta di piedi, sul ciglio estremo del mondo. Io sono brutta. Proprio brutta.

Rebecca, la protagonista del romanzo, nasce brutta. Attorno a questo, sembrano svilupparsi le relazioni delle persone che le stanno accanto. La madre che, sin dalle prime pagine, prende le distanze da questa figlia nata brutta: mia madre si è messa a lutto quando sono nata, la sua femminilità si è seccata crudele e veloce (..) Dopo che è tornata dall’ospedale non è più uscita di casa, mai più. Non mi prese in braccio, nessuno osò proporle di allattarmi. Il padre che sin dall’inizio tenta di proteggere la figlia, tenendola al riparo dagli sguardi delle altre persone, riparandola dalle cattiverie, dai giudizi. Una protezione che corre il rischio di privarla della propria libertà, della propria autonomia. Per molti anni Rebecca esce soltanto la notte da casa, per non farsi vedere. La tata Maddalena, che le vuole molto bene pur piangendo sempre (…)mi amò da subito con la forza di un bisogno. La zia Erminia sembra l’unica a vedere la nipote al di là del proprio aspetto fisico: è lei che cerca di convincere il padre ad inserirla all’asilo per toglierla da quello stato di isolamento. E’ sempre lei a vedere nelle mani della nipote, quelle di una musicista. Di una pianista.

L’incontro con la musica diventa l’occasione  per Rebecca di rivedere la propria storia di vita, le relazioni fino a quel momento. Di rinascere o forse di nascere. Incontrando per la prima volta quella madre oramai persa. Grazie ai racconti della signora De Lellis, la madre del maestro di piano, Rebecca scoprirà un’altra verità: la depressione della madre dopo la sua nascita non era stata compresa “dopo la mia nascita la vita di mia madre era diventata un piano inclinato. Nessuno le aveva afferrato la mano dall’alto oppure lanciato una corda. Per egoismo, impossibilità, inadeguatezza. Nel suo deformato mondo interiore mio padre era il bugiardo il cui amore riguardoso e impotente otteneva l’unico effetto di serrare il cerchio del suo delirio e per questo veniva punito con il silenzio”. Il padre aveva risposto con debolezza, impotenza. La zia Erminia, dal canto suo, aveva messo in scena il proprio egoismo, la propria vendetta nei confronti della cognata colpevole di averle portato via il fratello. L’aspetto fisico di Rebecca era diventato così importante perché dietro ad esso bisognava nascondere un’altra verità: l’infelicità, le incomprensioni, verità inconfessabili e che facevano paura. La paura rende egoisti, ciechi e sordi.

Rebecca non era stata mai veramente vista: vederla brutta, deformata, impresentabile era stata l’unica possibilità delle persone accanto a lei per salvarsi dalle proprie bruttezze, deformazioni, parti di sé impresentabili. Spostare tutto sulla piccola Rebecca. Mettere il brutto fuori da sé.

Penso a quante Rebecca. Alla difficoltà di comprendersi. Alle tante verità. Commuovono le parole che descrivono la madre nell’impossibilità di far sentire la propria voce, di farsi comprendere: “Mi parlava di lei incatenata alla rupe del suo male nero sopra un’isola abbastanza vicina per vederti e troppo lontana per toccarti, con l’anima spillata dagli sguardi che i tuoi occhi non avevano il coraggio di rivolgerle. Lei vedeva i tuoi passi incerti e davvero avrebbe voluto tenderti le braccia e sostenerti quando sei caduta. E non solo sostenerti ma anche in braccio farti saltellare la sera sulle scale e posarti leggera sul tuo letto ubriaca di voli. Ma non aveva potuto. Le braccia le aveva alzate e ben tese, oh se le aveva tese, si era buttata in avanti gridando aiuto, aiutatemi, cade la mia bambina. Ma l’isola in cui era prigioniera aveva ritirato le rive all’improvviso e l’acqua si era fatta più larga e profonda. Non ti aveva salvata e dicevano tutti intorno che non aveva voluto, nessuno aveva visto le sue braccia alzate e sentito l’urlo della sua volontà”.

Quante madri come la madre di Rebecca.

Prima di concludere, mi sono chiesta il senso del titolo. La vita accanto. Ho trovato la risposta nelle parole della protagonista:  la musica afferrò la mia vita. La consapevolezza tutta nuova che ci si aspettava qualcosa da me riempiva i miei giorni di sentimenti che non conoscevo e che prendevano il posto di quella specie di attesa vuota in cui prima le mie energie si erano congelate. Forse potevo dimostrare che c’era del buono in me, che mi si poteva voler bene perché valevo e non solo per un senso confuso di protezione o di colpa.  

Credo che questo libro racconti la difficoltà di incontrare la vita. Di viverla. Ma racconta anche che ci sono degli incontri e non solo di persone, ma anche di sentimenti e di passioni, in grado di aiutare a superare quel senso di impossibilità, di  non poterne fare parte, di non essere all’altezza, di non avere niente di buono. Incontri in grado di rendere possibile la vita. Non accanto.

Il segnalibro, la piccola Rebecca…..

Buona lettura!

femm. di Paola Rivolta

 

Il libro che voglio presentarvi oggi s’ intitola femm. ed è stato scritto da Paola Rivolta.

Diciotto racconti che narrano di diciotto donne diverse tra loro. Diciotto nomi. Diciotto luoghi e culture così diverse nelle quali vengono ambientate le storie: si passa dalla provincia italiana con i suoi odori e sapori tipici, alla metropoli americana, alla città russa e a luoghi che potrebbero essere ovunque. Un senso di discontinuità che ti obbliga a cercare tra le pagine qualcosa che tenga unite le storie. Al termine della lettura, quel senso di frammentazione mi ha spinto a pensare a tutti quei racconti come ad un’unica storia. Che narra la complessità dell’essere femmina.

Se la parola femmina rimanda etimologicamente a colei che allatta e che genera, mi sono chiesta se la scelta del titolo Femm. non abbia a che vedere con una femminilità problematica, non del tutto risolta (femm. e non ancora femmina) come le donne protagoniste dei racconti: donne alla ricerca delle proprie radici, un po’ perse, donne a cui viene negato l’amore, donne che tradiscono e che vengono tradite, donne che uccidono, donne amareggiate, tormentate, perfide. Sono madri, amanti, sorelle. Femmine che si allontanano da quell’idea di femminilità culturalmente richiesta, e che tentano di dare voce alla complessità dell’essere femmina, con le sue ambivalenze, talvolta la sua tragicità : significativo a questo proposito il racconto  Con la speranza che l’abusare del proprio corpo convincesse la natura. La protagonista ha una figlia che non riesce ad amare. E si tormenta alla ricerca di una qualche emozione, del desiderio di abbracciarla come pensavo avrebbe dovuto essere normale. L’unica cosa che invece provavo era un peso sul cuore, un’angoscia che riuscivo a gestire solo quando ero lontana da lei. E in quella maternità manchevole e differente si ritrova compresa dalla propria madre. E una domanda: Cos’era il suo? Un invito a rassegnarmi al destino di essere madre?

Nella seconda di copertina trovo scritto questo: di fronte all’ambiguità della natura umana resta nel lettore un senso di smarrimento che lo costringe a cercare tra le parole lette una rassicurazione morale, o almeno una qualche certezza. Io non lo so, non credo di essere d’accordo: forse invece leggere di queste ambivalenze, ambiguità, tragicità a volte anche un po’ caricaturali (vedi la donna killer) ti permette di alleggerirti da quell’ideale sociale e culturale richiesto alle femmine e che fa sentire sempre in colpa e inadeguate. Forse è proprio nella possibilità di avere accesso a tutte queste sfumature che da femm. ci si potrà avvicinare all’essere femmine.

Il segnalibro rappresenta un tulipano giallo……un tempo questo fiore rappresentava l’amore irrimediabilmente infelice, un amore senza speranza, ma del corso degli anni, il significato si è evoluto verso un pensiero di allegria. Anche in questo fiore una pluralità di significati.

Alla prossima.